LE DONNE, LE IMPRESE, IL CAPITALISMO INTELLETTUALE
Prima di Ludovico Ariosto, nessuno aveva incominciato un poema con “Le donne…”. Prima, c’erano le Muse. È chiaro che il poema di Ariosto è ironico e, quindi, subito arrivano i cavalieri: “Le donne, i cavallier...”. Seguono “l’arme, gli amori, / le cortesie, l’audaci imprese io canto, che furo al tempo che passaro i Mori / d’Africa il mare…”. E siamo già alle imprese! Le cortesie, poi, non hanno nulla a che vedere con l’amor cortese. Ariosto è assolutamente ironico verso le cortesie. La cortesia fondamentale è quella che tratta l’amore e l’odio in funzione della salute mentale.
Dicevo che prima c’erano le Muse, ma è chiaro che solo con il cristianesimo e poi con il cattolicesimo intervengono le donne.
Io non dico “La donna”, sarebbe assurdo. Sarebbe una replica a Aristotele che dice: “ogni uomo è mortale”. Quando diciamo “le donne” possiamo dirlo soltanto in un modo che si espone al paradosso. Le donne non sono un insieme.
Ricordiamo che Aristotele era maestro di Alessandro, un principe che diviene re e uno dei più grandi imperatori. Che cosa impara Alessandro da Aristotele? La falange macedone era molto efficace già con Filippo, ma con Alessandro diviene un esercito. È soltanto con Alessandro che il discorso politico diviene discorso militare. Questo aspetto non è ancora così chiaro in Platone, lo diviene in Aristotele. Poi, si accentuerà con il diritto canonico, e con quel discorso che diverrà l’inquisizione. È lungo questo discorso che la struttura dell’impresa, la struttura dell’industria — che non dovrebbe assolutamente essere militare, nell’accezione propria di quel discorso della guerra che è il discorso occidentale — diventa militare.
Quando l’impresa assume una struttura militare, le donne, tutt’al più, possono essere addette all’infermeria, alla farmacia, alle pulizie, alla segreteria (non una segreteria nel senso di cancelleria, ma una segreteria dove non siano partecipi a nessun segreto, dove ignorino il sapere sull’Altro).
La novità, in Europa, arriva con il Rinascimento. Ma è grottesco porre le cose in termini di “parità sociale”, in termini conformistici. Come dire che basta affidare a una donna un ruolo svolto da un uomo perché la struttura dell’impresa non sia più militare! Se noi facciamo la replica a Aristotele o a Hegel, noi ci limitiamo a “umanizzare” le donne, a virilizzarle, e contribuiamo a rendere il carnevale una faccenda sociale.
Ho accennato all’irruzione delle donne nel Rinascimento, alla misoginia strana, paradossale, di Leon Battista Alberti, che procede dall’antifrasi e, quindi, dall’ironia, pertanto dall’emergenza della parola. Nella parola originaria, la chance è per ciascuno. È chiaro che se una donna si accontenta di essere femminile non ha nessuna chance, le basta partecipare a una mascherata ritenuta sociale. Se, poi, una donna si fa materna è una rovina e si rovina.
Se un uomo si fa materno è fottuto! E se ne trova una vasta gamma nelle varie categorie sociali e professionali…
La demonizzazione dell’impresa si è avvalsa spesso della denuncia di sfruttamento, in particolare delle donne.La prima conseguenza della negazione della questione intellettuale per una donna è che si fa vittima.
La differenza sessuale prescinde dalla differenza tra uomo e donna, non è rappresentata né significata dalla differenza tra uomo e donna. Quella che chiamo differenza sessuale segue al tempo, e alle indicazioni del tempo, ai suoi tre indici: la madre, l’Altro, la morte.
Dominatori o dominati, sfruttatori o sfruttati, tutto ciò presuppone il godimento tutto, il godimento, il dispendio come causa. E presuppone l’assenza della funzione di nome e della funzione di zero. Questo non toglie che ci sia il frutto, che ci siano il rendimento o il profitto, che sono un’altra cosa. Il profitto non è una faccenda intersoggettiva. E il frutto non esige affatto il soggetto. Voglio ribadire che il soggetto è una creatura sorta dalla funzione di morte. Il frutto è nella scrittura del labirinto e nella scrittura del paradiso, nella scrittura della ricerca e nella scrittura del fare. Dunque, sfruttamento ha questa accezione assolutamente insolita: non è sfruttamento dell’uomo sull’uomo (o sulla donna), ma è l’instaurazione del frutto, per usare questa metafora. La parola non è un albero. Se esistesse una figura del due, potremmo dire che l’albero è la figura della relazione, la figura del due.
Manteniamo questo termine frutto perché è diventato un termine giuridico, estrapolato dall’albero genealogico: dall’usufrutto allo sfruttamento. Dire sfruttamento nell’accezione corrente è come dire che le cose procedono dall’albero genealogico. Ma c’è uno sfruttamento che invece procede dal due, anziché dall’albero genealogico e non è umano.
In una società intellettuale, non soltanto l’impresa è senza protezione e senza assistenza e, quindi, esiste il rischio, ma gli indici del tempo (la madre, l’Altro, la morte) non possono essere assunti da un soggetto. Farsi carico del negativo è farsi vittima.
Ripeto, l’impresa senza le donne è un’impresa senza intellettualità. Ma “le donne” non sono un insieme, non sono lì per rivestire un ruolo umano, come se stessero al posto di “ogni uomo”.
L’impresa non è fatta da uomini e donne perché è l’impresa del tempo. La parola non è collocabile. La questione non è, quindi, dove collocare gli uomini e dove collocare le donne — in un’azienda, per esempio — ma è d’instaurare un dispositivo intellettuale, una società altra. La questione essenziale per ciascuno, uomo o donna, è divenire statuto intellettuale, divenire dispositivo e non fondarsi sulla genealogia, che non c’è.