COME FORMARE IL CERVELLO DELL'IMPRESA
Prendendo le mosse dall’argomento di questo forum internazionale (Brainworking. Il cervello dell’impresa, Confindustria Modena, 25 novembre 2005), vorrei sottolineare una specificità del nostro paese: come sappiamo, il nostro paese ha una struttura economica basata sulle piccole e medie imprese, ha pochissime grandi imprese e quasi tutte operanti a ridosso della politica statale o comunque al riparo dalle tariffe e dai controlli statali; sono imprese del settore della comunicazione o delle vie di comunicazione, autostrade e così via, ma che, senza il sostegno dello Stato, non raggiungerebbero i loro obiettivi. È una situazione molto particolare che impone all’Italia problemi particolari che altri paesi per fortuna non hanno, proprio rispetto al problema del cervello dell’impresa. Non c’è dubbio che la grande impresa ha le possibilità e le capacità di sviluppare quello che oggi è l’elemento primario, il fattore più importante della crescita economica. Viviamo, come ci viene detto continuamente, nella società della conoscenza e la conoscenza è la base dell’innovazione, della novità, di nuovi cicli produttivi e di nuovi prodotti. Proprio per questo, nel nostro paese – il cui tessuto imprenditoriale, come dicevo poc’anzi, è costituito per lo più da aziende piccole e medie –, le singole imprese non possono essere lasciate sole ad affrontare il problema della ricerca, perché non hanno né la forza né la capacità necessarie. Ogni impresa ha bisogno di un cervello, ha bisogno di ricerca e d’introdurre novità nelle produzioni, dunque, dobbiamo creare un’organizzazione integrata in cui le istituzioni che fanno ricerca le mettano al servizio di chi produce. Detto in parole semplici, noi in Italia abbiamo la necessità, e non è un’opzione, di organizzare il sistema di istruzione e di ricerca, quindi scuola e sopra tutto università, in un modo che altri paesi possono trascurare ma noi no, se vogliamo creare un’Italia che possa continuare a produrre e che possa affrontare le sfide nuove, quelle che ci vengono da un mondo totalmente aperto e senza confini, anche nel campo degli scambi commerciali ed economici, quale quello attuale. Io faccio sempre un’imputazione di responsabilità ai nostri politici, perché la politica in Italia conta molto, forse anche troppo, nel senso che non c’è nient’altro. Veniamo da una storia con una borghesia debole, che non ha favorito lo sviluppo di una cultura borghese. In Italia, sono sempre state dominanti culture non borghesi, quella comunista e quella cattolica, per questo la politica ha uno spazio enorme, gigantesco, quasi totalitario. Noi dobbiamo contare sulla politica e fare in modo che essa, non solo prenda decisioni, ma abbia anche un pensiero; anche perché abbiamo una classe politica che, essendo stata presente in modo quasi totalitario, ha pensato, erroneamente, di poter fare benissimo le cose da sola e di non aver bisogno di nessuno. Diversamente dagli Stati Uniti, il legame tra mondo della politica e università in Italia equivale a zero, anzi, un importante uomo politico di oggi, di fronte alla domanda: “Come mai questa maggioranza non riesce ad avere un contatto nemmeno con i suoi intellettuali?”, ha risposto: “Ma io dei professori non mi fido”. C’è bisogno di un interscambio, poi a decidere è sempre il politico, però il politico deve essere informato, deve sapere che cosa succede nel mondo, deve capire come va il mondo. E, se abbiamo una struttura economica basata su singoli operatori – ciascuno dei quali non ha le capacità né finanziarie né strutturali né organizzative per fare ricerche e cercare di enucleare delle novità nel ciclo produttivo, ma deve per forza entrare in contatto con il mondo che fa questo, cioè che fa ricerca –, allora c’è bisogno di organizzare la scuola e l’università in modo differente.
Purtroppo, noi stiamo andando, non da oggi ma da venti o trent’anni, nella direzione esattamente opposta a quella in cui dovremmo andare con la legislazione sulla scuola e sull’università, perché, a partire dagli anni sessanta, dai famosi decreti Malfatti, il principio che hanno seguito tutte le riforme universitarie è quello di rendere l’università il più possibile aperta a tutti. Questo è giusto, ma ne è conseguito un altro principio: che tutti devono rimanere fino in fondo con le stesse chance di riuscita. Il che ha portato a un’inflazione di studenti. Molti giovani in Italia vanno all’università perché non hanno altro da fare, per non essere classificati come disoccupati, vengono parcheggiati all’università, la quale, trovandosi una massa di studenti sempre più alta, è costretta a moltiplicare il numero dei professori. Già questo non è un fatto positivo, ma la cosa ancora più drammatica è che l’università ha lentamente abbassato gli standard di giudizio. Succede questo perché noi dobbiamo tenere questo numero di studenti il più possibile parcheggiato lì, tra l’altro dando loro una preparazione più che generica, tanto che, quando gli studenti escono dall’università impiegano almeno due o tre anni per specializzarsi effettivamente per il loro lavoro. Io mi domando a che cosa serva un’università di questo tipo. Non serve a nulla, non serve né a noi né agli studenti né al paese. Non possiamo essere un paese civile, sperare in uno sviluppo, con un’università di questo tipo.
L’ultima riforma, la riforma Moratti, finalmente ha percepito questo problema, ha percepito cioè che la nostra università non serve a produrre ricerca, perché nella ricerca ognuno è abbandonato a se stesso. Per questo motivo, ha escogitato l’idea delle scuole di alta preparazione, ma, secondo me, ha scelto la via più sbagliata perché ha creato, o meglio, ha istituito, almeno sulla carta, un istituto tecnologico sul modello americano del Massachuttes Institute of Technology, che dovrebbe essere un istituto super super universitario che avrà sede a Genova. Io credo che invece la via doveva essere un’altra. In America gli istituti di tecnologia sono a ridosso di università di per sé prestigiose: l’istituto di Boston è a ridosso dell’Università di Harvard, quello californiano dell’Università di Stanford. In America, inoltre, ci sono tante università e tanti giovani che le frequentano, ma sulla base di due criteri, uno discutibile ma l’altro no: il primo criterio è basato sulle tasse ed è discutibile, perché solo chi può permettersele ha accesso agli studi; ma il secondo, quello basato sul merito, è molto valido: in ogni università americana prestigiosa, il cinquanta per cento degli studenti ha accesso solo in base al merito e gli altri, il cinquanta per cento che paga tasse altissime, molto più alte di quelle che si pagano in Italia, pagano anche per quel cinquanta per cento che viene preso per solo merito, cioè dopo avere superato una verifica e avere raggiunto alcuni risultati. Può piacere o no, ma questo è un sistema universitario che in qualche modo crea un’elite di studiosi e una classe dirigente del paese: i presidenti della repubblica si rivolgono alle università e ai loro esperti per prendere decisioni. Io non dico che il sistema che deve seguire l’Italia debba essere questo, però deve pur seguire un qualche sistema che la porti a produrre persone intellettualmente preparate che vadano a costituire una classe dirigente. Io dubito che oggi esista una classe dirigente nel nostro paese, c’è una classe politica di cattiva qualità, perché viene selezionata con criteri essenzialmente politici e non con criteri di merito. Le università non creano personale di qualità, perché non sono strutturate per crearlo e allora è chiaro che tutte queste cose dovranno cambiare, perché altrimenti un cervello collettivo non si può formare in Italia e per la sua struttura l’Italia ha bisogno di un cervello collettivo tanto più che l’Italia, anche, per esempio, nel settore manifatturiero, se ha una prospettiva, è quella di puntare su prodotti di alta qualità. Oggi l’Italia non ha i mezzi per fare prodotti di qualità generica, perché ci vuole una manodopera che costi pochissimo e, quindi, ormai deve convincersi che, come si dice spesso, è la Cina la fabbrica del mondo, la Cina e altri paesi che hanno manodopera a basso costo sono le fabbriche del mondo. Ma, per fortuna, man mano che la ricchezza si espande nel mondo, si creano classi agiate che consumano prodotti di qualità perché il prodotto di qualità è un segno distintivo, di appartenenza a una certa classe. Si pensa che in Cina nei prossimi dieci anni si formeranno trecento milioni di persone che diverranno acquirenti di prodotti di qualità. E l’Italia ha solo questa prospettiva nel settore manifatturiero: o fa prodotti di alta qualità o è destinata a essere schiacciata da chi produce a costi molto più bassi prodotti di scarsa qualità.
Se questo è vero, lo è a maggior ragione il mio discorso. Mi sembra, cioè, che dobbiamo convertire tutto il sistema di istruzione e di selezione di questo cervello collettivo di cui ha bisogno l’Italia, attraverso una riforma del sistema scolastico e sopra tutto universitario, che abbia questo scopo, perché oggi la struttura economica e politica del paese ha bisogno di un cervello collettivo senza cui non ha orientamento.