VIVERE IL MONUMENTO. CONSERVAZIONE E NOVITÀ

Qualifiche dell'autore: 
ingegnere, docente di Tecnica delle Costruzioni al Politecnico di Milano

Mi sento molto fortunato nella mia professione, sia perché ho incontrato ingegneri e architetti di grande valore con cui ho potuto collaborare – io nasco come ingegnere con il desiderio di essere un architetto, e in qualche modo sono riuscito a coniugare queste due attività – sia perché mi sono occupato di oggetti “unici” – castelli, chiese, monumenti – che hanno avuto necessità del mio aiuto.

Queste esperienze hanno fatto crescere in me un’attitudine positiva nei confronti del patrimonio monumentale e sento una responsabilità che si manifesta nell’attività concreta della diagnosi e della progettazione: devo occuparmi della sicurezza – devo far sì che, per esempio, un solaio non crolli o che un muro alto venti metri riesca a resistere al vento o a un sisma – e assieme devo rispettare l’oggetto nella sua autenticità.

Nella scuola di restauro conservativo di Milano, ho imparato molto da Marco Dezzi Bardeschi, da Amedeo Bellini e da altri amici e colleghi di Facoltà, ho imparato a operare con libertà nel cercare di risolvere problemi che sono unici e di volta in volta diversi.

Un relatore prima ricordava che si deve “operare per necessità”: è vero, concordo, ed è importante che sia così. Alessandro Marata diceva che nei miei interventi non uso niente di più di quello che si deve. Non ci avevo mai pensato, ma mi sembra condivisibile. Spesso la struttura nuova, la struttura di supporto che risulta dal lavoro di progetto, è così essenziale che, se qualcuno mi chiedesse se si possa aggiungere qualcosa, non saprei che cosa. È un’esperienza sempre entusiasmante vivere assieme, condividere tempo e spazio con i monumenti, ma per fare questo dobbiamo farli vivere; e così la conservazione passa attraverso fasi intermedie di criterio e di scelta, come la fruibilità, la manutenibilità, l’accessibilità.

I criteri che adotto nei miei interventi sono consolidati nella moderna prassi del restauro – la necessità, la non nocività, l’efficacia, la compatibilità, la durabilità, la reversibilità – e sono dettati sempre dal fatto che l’edificio è un oggetto unico e irripetibile al quale dobbiamo dare tutta la cura e l’attenzione possibili.

La struttura non deve essere soltanto supporto o contenitore di qualcos’altro, dobbiamo trovare un modo per conviverci, attraverso una conservazione prudente, rispettosa, ma capace di scelte innovative.

Quando dico che le mie soluzioni devono essere reversibili non intendo che un domani possano venir buttate via, anzi, spero che possano durare per molti anni. Ma se dovessero arrivare una nuova idea, un nuovo materiale o un nuovo concetto, ben vengano, perché io ho avuto libertà di agire al meglio e la stessa libertà deve essere lasciata a chi verrà dopo di me.

Mi chiedevano di dare qualche esempio concreto di edifici su cui sono intervenuto, e allora cito la grande torre in muratura di San Dalmazio a Pavia che aveva bisogno di un consolidamento: è stata introdotta una nuova “torre nella torre”, in acciaio, indipendente dall’altra, dove una serie di piccoli tiranti s’incaricano di trasferire alla torre nuova una porzione significativa del peso della torre antica.

Un argomento su cui sto lavorando con convincimento e piacere è quello degli archi, dimenticati per decenni dalle nostre scuole di ingegneria e di architettura, ma che oggi ritornano finalmente a essere attuali e studiati. Ho elaborato recentemente una tecnica con cui possiamo introdurre forze orizzontali alle reni di un arco, senza necessariamente inserire una catena a vista. Questo procedimento verrà adottato nel Duomo di Cremona.

Un altro tema sul quale sto lavorando da anni è il cosiddetto “arco armato”. L’arco, ricordiamolo, non è altro che un “pilastro storto” e, se agisco in modo da ottenere che tra un concio e l’altro dell’arco passi solo compressione, ho agito bene. Un cavo post-tesato, posto all’estradosso, è un intervento semplice e risolutivo per favorire tale stato di sola compressione.

Anche nella didattica mi ritengo un uomo fortunato. È bello constatare che gli allievi, insieme ai modelli numerici, imparano da me a usare anche le mani e la testa per costruire. Con un gruppo di studenti abbiamo realizzato una campagna sperimentale per verificare se il metodo (usato e abusato) della “cappa di calcestruzzo” posta sugli archi e sulle volte sia davvero efficiente, o se esistano alternative. Abbiamo trovato che la soluzione dell’arco armato porta a risultati altrettanto validi, con il vantaggio dovuto al fatto che la massa aggiunta con i nuovi elementi di cavo è praticamente zero, un fatto molto apprezzabile in zona sismica. I cavi si comportano come una specie di elastico che riporta l’arco alla sua geometria originaria, dopo il sisma. Questo metodo permette di ottenere anche una benefica dissipazione di energia.

Al Castello della Manta, proprietà del FAI, abbiamo utilizzato un graticcio di cavi all’estradosso, disposti in due direzioni perpendicolari. A Sogliano sul Rubicone abbiamo consolidato un antico ponte in muratura, con cavi all’estradosso che hanno dato a esso una capacità di resistere non soltanto ai carichi verticali, ma anche a quelli sismici orizzontali.

In generale, si riesce a ottenere un miglioramento che porta la resistenza a valori tre, quattro volte quella originaria. E – mi sono chiesto – perché mai mettere soltanto cavi a estradosso, quando si possono utilizzare, e anzi talora si devono utilizzare, cavi all’intradosso? E così sono nati i rinforzi a cavi visibili, applicati per esempio nell’interrato della Villa San Carlo Borromeo di Senago e alla sede della Provincia di Lodi.

Ancora un esempio d’uso di cavi: una torre del Castello di Pavia era già stata consolidata da Annoni nel 1926, ma nel 1998 si è rivelato necessario un nuovo intervento. Così, nell’angusto spazio tra la struttura in cemento armato del 1926 e quella originaria, in muratura, del 1400, ho progettato un consolidamento che adotta il “terzo modo” per trasferire i carichi, ossia quello che sfrutta la trazione, alternativo a quelli che si basano sulla flessione o sulla compressione. Ho così inserito, nello stretto spazio disponibile, una serie di cavetti sagomati, che rinforzano da sotto il solaio dell’Annoni. Ho usato una geometria particolare, sagomando i cavi ad anello, così da superare il problema della presenza della volta sottostante che avrebbe impedito ai cavi di passare, se fossero stati diritti. Invece d’intersecare la volta, le siamo passati intorno. Anche questo progetto e questa scelta è un’applicazione del criterio del “caso per caso”. Ciascun problema e ciascuna geometria è particolare: è la struttura stessa che ci suggerisce che cosa fare.

Al castello di Montorio, vicino a Verona, ho avvolto i beccatelli posti in sommità della torre principale, che stavano cadendo, con una sorta di “briglia da cavallo”, usando cavetti da soli 5 millimetri, in acciaio inox, che cerchiano la mensola in pietra e contemporaneamente la sostengono: ovviamente, anche questa soluzione è reversibile. Molte volte nella progettazione, accanto al concetto informatore, è il dettaglio che fa la differenza. Può esserci anche giocosità e fantasia nelle scelte, fatte sempre con la consapevolezza che il tempo è padrone, incide e decide per noi, e che le cose il giorno dopo sono già cambiate.

A volte propongo interventi che creano qualcosa di nuovo che convive con l’antico, perché nuovo e antico devono convivere. Nel municipio di Polpenazze, c’era una grande torre sconosciuta ai cittadini: le abbiamo dato uno scopo, trasformandola in un vano scale. Abbiamo inserito la scala metallica tutta intera, dall’alto, facendo la cosa più semplice e dimostrando che anche nell’ingegneria talvolta ci si può divertire a trovare soluzioni diverse dal solito. Certamente, i calcoli sono necessari, ma alla fine le soluzioni nascono dalle esigenze, con un pizzico di creatività e il desiderio di non ripercorrere sempre le stesse strade.

Un’altra esperienza straordinaria del mio lavoro è stato il lungo periodo trascorso con mia moglie in Armenia, una terra meravigliosa. Lì ho consolidato un antico monastero in alta montagna. Ma la cosa più indimenticabile è stata la convivialità. Una notte ci hanno portati a vedere come si fa il pane e la mattina alle otto, dopo averlo mangiato, abbiamo ballato e fatto festa tutti insieme. Alla fine del nostro soggiorno, ci hanno regalato i disegni che i bambini avevano fatto in quella giornata.

Da ultimo, voglio citare un lavoro che mi sta impegnando parecchio: la costruzione del nuovo auditorium alla Villa San Carlo Borromeo di Senago, che stiamo realizzando sotto l’atrio della villa: uno spazio di 22x50 metri, per una profondità di oltre 10 metri. Un’opera notevole in cui, anche se non si tratta propriamente di un intervento di restauro, è importante rispettare il costruito e le sue funzioni. Ciò ha imposto di ripristinare al più presto la piazza, ossia gettare i pali perimetrali e mettervi subito sopra la copertura, prima di fare lo scavo, permettendo che la Villa continuasse a vivere e a convivere con tutti quelli che volevano usarla per lavoro o per essere ospitati all’interno. Solo successivamente, siamo andati a scavare dal di sotto, operando non a vista, creando il grande auditorium, oggi in fase di ultimazione.

Anche in questo cantiere la mia attenzione è stata sempre attirata sia dal concetto generale che dai tanti dettagli: la modularità delle piramidi, i pali tagliati dai carotieri come fossero enormi flauti, i giunti tridimensionali essenziali e lastricati di bulloni, il legname di scarto accatastato in cantiere che di lì a poco sarebbe stato buttato via e che sembrava quasi una scultura. Sono immagini che ti restano nella mente, come gli occhi della compagna di classe di cui ti sei innamorato, e io credo che occorra vivere queste immagini e questi oggetti in modo aperto e coinvolgente, come strumenti del mestiere e del suo insegnamento.