QUALE VACCINO NELLE NEOPLASIE?
Intervista di Sergio Dalla Val
Potrebbe accennare alle novità della ricerca che sta conducendo in Spagna?
L’oggetto principale della mia ricerca è il linfoma follicolare, un tumore del sistema linfatico incurabile e, al tempo stesso, indolente, un tumore dal decorso cosiddetto fulminante. Nonostante i nuovi farmaci e approcci terapeutici “sfornati” a getto continuo, tutti sono utili ma nessuno serve, il tumore si può controllare ma non se ne può ancora guarire. Almeno fino a oggi, nessuno c’è riuscito. Purtroppo, trattando massicciamente i pazienti con queste terapie, prima o poi le riserve funzionali dell’organismo, sopra tutto di fronte a chemioterapie sempre più aggressive, diventano insufficienti, per cui bisogna rassegnarsi a smettere di trattare il paziente, mentre il tumore, pian piano o rapidamente, se si trova nelle ultime fasi, prende il sopravvento in maniera decisiva. Per affrontare questo tumore iniziamo con una chemioterapia abbastanza standard, non particolarmente aggressiva, per ridurlo ai minimi termini e, una volta ottenuto ciò, applichiamo un vaccino che si produce a partire da una proteina che sta sulle cellule di questo tumore e che è totalmente differente da un paziente all’altro. Ciascun paziente riceve un vaccino prodotto dal proprio tumore. Per attenerci a criteri rigorosamente scientifici, stiamo portando avanti questa ricerca da circa quattro anni e, mediamente, i pazienti hanno già ricevuto il vaccino da circa un anno e mezzo, quindi, mancano ancora cinque o sei mesi per verificare i risultati.
Quali differenze esistono tra le vaccinazioni conseguenti a ipotesi virali o batteriche e quelle in casi di neoplasie? Come viene coinvolto il sistema immunitario?
Innanzi tutto, a partire dalla mia ricerca, confermo che non è compresa alcuna ipotesi virale di formazione del tumore. È bene ribadirlo, perché si pensa che il vaccino serva solo per la profilassi di malattie infettive. Invece, il concetto di vaccino oggi riguarda l’immunologia nel suo complesso, non più solo l’infettivologia e non solo l’oncologia. Per l’immunologo, il vaccino è una sostanza che, data come cura a una persona malata o come profilassi a una sana, stimola il suo sistema immune a reagire contro una sostanza nociva per la persona stessa. Oggi si possono applicare vaccinazioni in tantissimi casi, ma lo scopo finale è sempre quello di rafforzare e stimolare il sistema immunitario a reagire contro una certa sostanza. In oncologia, in particolare, non si tratta mai di dare un vaccino per prevenire il cancro – anche se auspichiamo che possa avvenire – ma per limitare la proliferazione neoplastica. Nel linfoma follicolare non è mai stata dimostrata – e, forse, non è mai stata cercata – la presenza di virus. Anche in quest’ipotesi, occorrerebbe distinguere tra il vaccino per combattere il virus e il vaccino per combattere direttamente il tumore. Ricordo che il tumore è costituito da cellule dette “immature” che, nel caso del linfoma follicolare, comunque non lo sono molto: sono di medio o leggero grado d’immaturità. Contro queste cellule immature, o meglio, contro certe sostanze presenti sulla superficie, sulla membrana cellulare, di tali cellule tumorali, si può stimolare il sistema immunitario a reagire. Tali sostanze sono di natura proteica, differenti per ciascun tumore. Nel nostro caso abbiamo identificato una proteina, ma altre non sono state ancora identificate; comunque, quella identificata risulta specifica per ogni tumore di ciascun paziente, per cui, se da un punto di vista nosografico pazienti differenti risultano colpiti da uno stesso tipo di tumore, nel nostro caso il linfoma follicolare, ciascuno di essi, da un punto di vista immunologico, presenta una proteina specifica: ricordo che tali proteine superficiali non servono molto al tumore, ma vengono prodotte, con una composizione chimica distinta. Involontariamente, quindi, questa proteina si “offre” a essere usata come nucleo di un vaccino: noi la trattiamo in laboratorio, la purifichiamo, in modo tale da renderla più “appetibile” al sistema immunitario, che, ovviamente, si è disinteressato fino a quel momento delle cellule tumorali, altrimenti non ci sarebbe stato tumore, non ci sarebbe stata malattia, non ci sarebbe stato bisogno di medici che producessero un vaccino, non ci sarebbe stato bisogno di chemioterapia. Somministrando vaccino quando c’è poco tumore, cioè quando la chemioterapia l’ha ridotto ai minimi termini, abbiamo visto che, nella maggioranza dei pazienti, il sistema immunitario “si sveglia”. Anche con l’aiuto di altri accorgimenti che mettiamo in campo, riconosce, attraverso la proteina, le cellule tumorali che fino a quel momento aveva risparmiato, che la stessa chemioterapia aveva risparmiato, e si attiva neutralizzando le cellule.
Pur sapendo che non è il suo campo specifico di ricerca, vorrei chiederle se c’è l’ipotesi di applicazioni di terapie autoimmuni ad altri tipi di tumore?
In alcuni tipi di tumori solidi sono stati fatti molti tentativi di applicazione di terapie autoimmuni, finora rimasti in larga misura infruttuosi. Uno slogan che va molto per la maggiore tra gli addetti ai lavori, è: “Per il momento, ha fatto più il cancro per l’immunoterapia che l’immunoterapia per il cancro”. Allora ci si potrebbe chiedere perché confidare tanto nelle terapie autoimmuni per la lotta al cancro.
Resta il fatto che in questo tumore conosciamo il “bersaglio”, o almeno uno dei bersagli: la proteina. Negli altri in cui è stato tentato lo stesso approccio di ricerca si conoscono, tutt’al più, “pezzetti” di bersaglio: non è stata ancora individuata la proteina intera, ma parti di essa che, forse, potrebbero avere una potenzialità evocatrice per il sistema immunitario.
Ricordiamo ancora che il sistema immunitario risponde a proteine intere, o a larghe parti di esse. Si è visto che tra vaccinare con proteine dell’ordine di centinaia di aminoacidi e vaccinare con proteine di sette o otto aminoacidi di sequenza c’è una grande differenza di efficacia: le prime hanno molto più successo, per le seconde l’efficacia è “aneddotica”.