IL VALORE DELLA VITA
Quando si discute di temi come il cuore o il cervello, ognuno pensa che si tratti di una questione per specialisti, per cui delega il problema agli operatori della salute, fiducioso che questi capiranno tutto, sapranno tutto, si metteranno d’accordo e daranno all’utente, paziente e passivo, gli opportuni farmaci per farlo stare bene, o meglio. Questa delega è stata incoraggiata dalla stessa corporazione medica, che spesso si ritiene l’unica depositaria di un sapere, cui è vietato l’accesso: così per ogni “disturbo”, ma anche per una dieta, occorre rivolgersi allo specialista.
Il dibattito aperto con questo numero della rivista non vuole togliere l’autorità, la maestria e il talento al medico, bensì esigerli: quando ciascuno non delega nessun aspetto della vita, tanto meno quello della salute, e assume il rischio e la scommessa di vita, lascia il medico in uno statuto scientifico, che non è quello del taumaturgo. Lo statuto di medico è scientifico perché linguistico, intellettuale, non perché basato sulla conoscenza del bene e del male. La medicina scientifica, la medicina del secondo rinascimento, infatti, esige che tra il medico e chi ha bisogno della cura si costituisca un dispositivo di parola e di ricerca che diviene così un dispositivo di battaglia per la salute. La salute non è un diritto, perché non è naturale, è un’istanza da acquisire ciascun giorno, costituendo dispositivi, secondo l’occorrenza, per la qualità della vita.
Mentre la mitologia medica della salvezza tende a sostituire la salute con il sentirsi bene e la cura con il tenersi in forma, la questione cuore esige che la vita sia qualcosa di differente dal sopravvivere. La tachicardia e l’attacco di panico vengono affrontati, di solito, con enunciati del tipo: “Quanto mi resta?”, “Ce la farò?”, “Mi sento morire”. Ma non si tratta di sopravvivere, si tratta della vita e del suo estremismo, nel momento in cui si avverte che non c’è più da scherzare, da prendersi in giro, da fingere che le cose siano accomodabili, siano rimediabili, siano facili. Con il cuore non si scherza: questo è ciò che sottolinea il panico.
Nella sala in cui si è tenuto il convegno Il cuore, i cui atti pubblichiamo in questo numero, campeggiava un’iscrizione: “Ne timeas, Maria”. Questo “Ne timeas” non è uno psicofarmaco: Cristo non oppone la droga al panico, lo sancirebbe come quella certezza soggettiva prodotta dalla psicofarmacologia e dal business mondiale della morte. “Ne timeas”, quando il timore non aiuta più a tirare a campare, e l’infinito attuale sembra quasi avvertirsi. Il panico impedisce che ci si affezioni al timore. E le extrasistoli, questo battito incontrollabile, è qualcosa che accenna alla pulsione e al due originario (e non a caso il cuore lavora in modo binario). “Mi si stringe il cuore”. Ma questa stretta è tutt’altro che una sofferenza, dice che il ritmo non può venire meno, che l’apertura non è spaziale. Anche l’agorafobia risulta una claustrofobia, quando anche la piazza sembra diventare chiusa perché nella città presa come spazio non c’è l’apertura, non c’è il tempo, non c’è l’Altro. Il panico è una sentinella che ci dice che le cose non possono chiudersi, che procedono dall’apertura e vanno in direzione dell’infinito. E l’infarto è contraccolpo del tentativo impossibile di realizzare un fantasma di padronanza sulle cose, di realizzare l’idea di fine.
Non a caso nell’infarto si tratta di infarcire, di riempire, e dunque di occlusione, di chiusura: la paura dell’infarto, paura della paura, ci avverte che non è più possibile vivere nella chiusura e nel conformismo quotidiani, e che non si tratta di passare la vita a riempirsi di cose. Impossibile prendere a cuore se stesso o l’Altro, salvo la passione, e la patologia. Il soggetto all’infarto è soggetto al benessere, indica quanto la salute sia distante dallo stare bene, e la cura dal curare se stessi o l’Altro.
Il dibattito sul cuore è il dibattito stesso sullo statuto della medicina scientifica. Come interviene l’Altro nella medicina? In modo altruistico, come l’Altro che soffre, da prendersi a cuore? L’analisi dell’infarto esige l’indulgenza – in cui l’Altro non si rappresenta –, non l’altruismo. L’indulgenza non pone rimedio, non dispensa benessere; virtù della tolleranza e del superfluo, viene dall’Altro irrappresentabile e dal tempo indispensabile, “insiste sull’opera, sulla pratica, sul fare”, scrive Armando Verdiglione. L’indulgenza è intellettuale, prova che l’Altro è intoglibile, che è il fare con il tempo, come altro tempo, che non finisce, che non si spazializza, che non si riempie di soggettività; per questo è essenziale per la vita che non sia già data, scontata, mediata.
La medicina scientifica trae dall’indulgenza la lezione di quanto la salute debba all’altro tempo, non alla complicità o all’intesa. Non è più mediazione tra il malato e il sano, cioè tra il soggetto e la morte, ma misura della vita. La salute non è la negazione della malattia, che anzi talora interviene a esigere che vengano ritrovate le condizioni di salute, come una spia dell’urgenza dell’altro tempo, della vita altra. La salute come negativa della malattia sarebbe la salute mentale, quella che deve riportare la vita nei limiti della mentalità, che è il modo corretto di gestire, magari con psicofarmaci, un’esistenza basata sulla morte, vicina o remota che sia. Che valore, che qualità ci riserverebbe questo sopravvivere?
Il ritmo dell’Altro, del fare, dell’impresa, trae alla salute intellettuale, che è istanza di qualità della vita, ben oltre lo stare bene, o alla voglia di vivere meglio. Come indicano i testi di questo numero, questa qualità esige i dispositivi di ricerca, di produzione, di scrittura, di finanza e di vendita. Il valore della vita non è scontato, questi dispositivi di valorizzazione promossi dalla cifrematica sono essenziali per acquisire la salute intellettuale.