OPPORTUNITÀ E SVANTAGGI DELLA FINANZA GLOBALE
Nell’era in cui viviamo, l’era della finanza globale – la principale espressione della globalizzazione –, la responsabilità dei governi e delle imprese è fondamentale. La finanza globale è, al tempo stesso, indice di progresso e di regressione, perché può provocare instabilità e crisi internazionali, che ormai pensavamo superate da tempo. Né i poteri pubblici, né le imprese, né gli esperti sono veramente consapevoli di tutte le possibili conseguenze della finanza globale: si naviga a vista. Ma esiste veramente un pericolo di crisi? E ci sono metodi per impedirla?
Per la prima volta nella storia, il sistema economico e finanziario ha dimensioni planetarie e funziona in tempo reale, ventiquattro ore al giorno, sette giorni su sette, senza interruzione. Questo vuol dire che le decisioni economiche devono avvenire in un tempo che non solo è sempre più breve, ma addirittura è stato abolito. Nel mondo finanziario, il tempo come lo abbiamo sempre pensato non esiste.
Un altro aspetto interessante che molti non hanno ancora capito è che il prezzo dei cosiddetti financial assets – i titoli, le azioni e le attività finanziarie – è diventato la base su cui poggia l’economia mondiale: tutte le nostre attività, i nostri business, i nostri valori tangibili e intangibili vengono tradotti e confrontati con il prezzo dei financial assets. E questa è una novità assoluta.
Evidentemente, in questo quadro così complesso, ciò che interessa ai politici, agli economisti e alle imprese è la distinzione tra i rischi reali di questo sistema e i rischi artificiali o non reali, ma che comunque oggi sono quelli che danno impulso al sistema. La remunerazione principale in questo sistema è quella proveniente della gestione del rischio, quindi occorre distinguere tra rischi di mercato e rischi generati dal sistema. Come siamo arrivati a questa situazione? Nell’arco dei venticinque anni successivi alla seconda guerra mondiale, la finanza ha sempre seguito l’economia reale: gli investimenti, la nuova divisione del lavoro a livello internazionale (i grandi modelli, le grandi industrie) e la liberalizzazione del commercio hanno preceduto le trasformazioni che hanno portato al sistema della finanza globale. Intorno agli inizi degli anni settanta, invece, la finanza ha incominciato a prendere il sopravvento sull’economia reale fino a superarla.
A questo è seguita una vera e propria metamorfosi del sistema bancario. Per le banche, oggi, fornire credito è diventata l’ultima delle attività, sono principalmente gestori e speculatori sui rischi dei financial assets.
Un’altra conseguenza di questa evoluzione è rappresentata dall’abbattimento delle frontiere finanziarie nazionali, che ormai esistono soltanto sulla carta geografica. È una realtà di cui bisogna tener conto. Gli automatismi del mercato sono diventati molto più importanti di qualsiasi valutazione politica: il sistema è caratterizzato da continue innovazioni, vengono lanciati sempre nuovi prodotti e non c’è distinzione, per esempio, fra il credito erogato a una società di alta tecnologia e quello erogato per una transazione finanziaria.
Per di più, ci troviamo in una situazione paradossale: da una parte, assistiamo a una concorrenza enorme, dall’altra, al proliferare di concentrazioni e fusioni con l’obiettivo di eliminare la concorrenza.
Un altro elemento interessante, conseguenza della mancanza di trasparenza, è l’enorme volume di operazioni finanziarie alla ricerca del guadagno derivante dai margini sui volumi di transazioni reali. Poiché la gestione del rischio e dei mercati è diventata molto efficace, la differenza di prezzo si è abbassata moltissimo e, quindi, per trarre maggiore guadagno da queste piccole variazioni di prezzo, bisogna lavorare su volumi giganteschi.
Fortunatamente, viviamo in un’economia di mercato, in una market drive economy, ma ci sono differenti tipi di mercato: quello delle azioni, quello monetario e quello, per esempio, dei prodotti energetici. Una decisione che prendiamo oggi sul programma energetico – per esempio, la costruzione di una centrale nucleare –, richiede dieci, vent’anni prima di avere i suoi effetti sul mercato. È evidente che, invece, gli effetti delle azioni sul mercato finanziario sono istantanei. Gli attori del mercato finanziario e monetario sono gli intermediari, non c’è uno scambio tra produttori e consumatori, quindi l’economia di mercato si è trasformata sempre più in un sistema di intermediari finanziari.
Sicuramente, lo sviluppo della global finance ha creato opportunità, ha contribuito alla crescita economica e ha aperto i mercati finanziari ai cosiddetti paesi emergenti, ma ha anche contribuito all’instabilità economica e alla crisi monetaria internazionale. Questa immagine, che poi corrisponde alla realtà dei fatti, contribuisce alla crescente disaffezione dei cittadini verso l’economia liberale e la globalizzazione. E credo che questo sia uno dei danni maggiori.
Sul piano delle imprese, la global finance ha introdotto una ridefinizione della redditività e della competitività, una nuova gerarchia di valori: la finanza è al primo posto e al secondo ci sono le fusioni e le acquisizioni. Il modo con cui sono gestite le fusioni consente di decretare il successo delle imprese: per avere successo oggi le imprese devono vigilare sul prezzo delle azioni e difendersi dai predatori o essere predatori. Allora, le imprese sono di fronte a una decisione difficile: devono concentrarsi sui prodotti e sui mercati o sulla finanza? Privilegiare gli azionisti o eliminarli? Se vogliono rimanere indipendenti, devono rimanere legate alle loro radici o spostarsi all’estero? È significativa quella pubblicità della Banque Suisse, in cui leggiamo: “Noi salvaguardiamo l’interesse dei nostri clienti, dei nostri azionisti e della comunità”. E chi pensa agli interessi degli impiegati? Non esistono più, le imprese oggi sono costituite dagli azionisti e, tutt’al più, dai clienti.
E infine passiamo ai governi: sono ancora i garanti del bene pubblico, sul piano nazionale e internazionale? Negli anni sessanta, settanta, la sinistra aveva un potere eccessivo sull’economia, oggi, al contrario, c’è un ritiro del senso di responsabilità dei governi. Da una parte, l’accento sul privato va a tutto vantaggio dello snellimento delle procedure burocratiche, ma dall’altra non è interessante l’assenza dell’intervento statale sulle transazioni internazionali. È un ritiro dalla responsabilità veramente inquietante, perché tutto è abbandonato al campo della finanza. La questione sociale e la solidarietà sono termini spariti dal vocabolario degli economisti, ma anche la Banca Centrale ha abbandonato da tempo la responsabilità verso il mercato monetario, è talmente disinteressata al valore del dollaro che non considera il disavanzo dell’economia americana un problema. Allora, non possiamo meravigliarci se poi nel sistema della globalizzazione c’è un contrasto incredibile fra il commercio, basato su norme rigorosissime, e l’assenza totale di regole in materia di movimenti finanziari. Ma, se parliamo con gli economisti, ci dicono che dobbiamo capire la differenza: il commercio non è paragonabile alla finanza.
Eppure, i grandi equilibri devono essere salvaguardati: occorre evitare i danni a breve, medio e lungo termine che possono derivare dallo squilibrio fra la finanza, il sistema monetario e l’economia reale.
Ma quali sono le prospettive e, soprattutto, il panico è giustificato? È molto facile rispondere con il panico, ma il panico non è una risposta. I tempi sono maturi, invece, per cambiare orientamento e reintrodurre un equilibrio tra la finanza, il sistema monetario e l’economia reale, tra la responsabilità del privato e quella del pubblico, tra la spinta alla concorrenza e le istanze di solidarietà. Chiaramente, è una risposta che occorre dare sia a livello nazionale che internazionale e, così, ci accorgeremo che l’ottimismo con una punta di realismo è giustificato: gli interessi per evitare una disgregazione del nostro sistema sono forti e convergenti e, come sanno gli imprenditori, la paura dell’avvenire stimola la creatività. E la forza della società liberale sta nell’innovazione e nella capacità d’imparare dal passato e di avere fiducia nell’avvenire.