LA VIOLENZA NEL LAVORO E NELLA PSICHIATRIA
Vorrei fare alcune riflessioni anche a partire dal mio lavoro istituzionale, che non si svolge strettamente nel campo del disagio mentale, ma in quello della medicina del lavoro. A Gorizia ho partecipato a un processo penale riguardante le vittime dell’amianto nei cantieri navali. A questo proposito vorrei aprire un ragionamento sugli omicidi colposi nei luoghi di lavoro e sulla loro pericolosità. Il sistema giuridico dei “delitti e delle pene” nel nostro paese, nella storia recente e passata, è in questo campo spesso ispirato al principio di “due pesi e due misure”, che Giorgio Antonucci ha denunciato a più riprese. Uno stereotipo ancora oggi fortemente radicato, nonostante la sua inconsistenza, è quello che associa la cosiddetta malattia mentale alla cosiddetta pericolosità, compresa la pulsione omicida. Anche nella medicina del lavoro accade questo. Il dibattimento in cui sono intervenuto a Gorizia, come perito di parte lesa, riguardava i danni dell’amianto, sostanza che oggi è fuorilegge solo in alcuni paesi e in quelli in cui non lo è provoca almeno centomila morti all’anno tra i lavoratori e molti di più se consideriamo l’impatto ambientale e sociale complessivo. Un crimine, voluto e difeso da alcuni governi, in particolare occidentali, tra cui il Canada, che per i suoi effetti persistenti fa impallidire molti altri reati di basso profilo giuridico, che, viceversa, possono portare chi viene giudicato “matto” alla reclusione, a volte per tutta la vita.
Una persona che stiamo seguendo, per esempio, con alcuni avvocati di Bologna, ha vissuto gli ultimi dieci in città, ed è appena uscita dall’incubo di sette anni di psichiatria giudiziaria. Tunnel in cui era entrato a seguito di un “enorme” reato che consisteva nell’avere dato una sberla a uno psichiatra. Questa persona viene “deportata” prima nell’Ospedale Psichiatrico Giudiziario di Montelupo Fiorentino, poi addirittura in quello di Aversa, vicino a Napoli, mettendo in difficoltà tutta la rete, scarsa ma significativa, di relazioni sociali attorno a lui.
Sono grato a Giorgio Antonucci per il grandissimo lavoro che ha fatto in questi decenni contro gli abusi della psichiatria e per la summa che ci regalato con il suo libro Diario dal manicomio, nel quale integra un’enorme opera di scienza con un altrettanto enorme contributo di poesia, senza assemblare le due parti, ma proponendoci una scienza che si lascia infondere dalla poesia, dal fattore umano e dalla capacità di empatia nei confronti dell’altro.
Giorgio Antonucci usa spesso il termine fiorentino “leticare”. Parlando la lingua della sua città, resiste a quella fastidiosa e insopportabile omologazione dei linguaggi che porta al rischio di eliminazione di quella che mi piace chiamare “Amazzonia linguistica, psicologica e sensoriale”, che comprende non solo linguaggi e idiomi ma anche culture e modi di pensare.
Ricordo che mi occupo anche di molestie morali nei luoghi di lavoro. Discutiamo spesso, come operatori di sanità pubblica, del mobbing, fenomeno esistito da sempre nei luoghi di lavoro, di cui si è incominciato a parlare sui media soltanto quando sono stati colpiti strati sociali storicamente più garantiti. Ma il termine mobbing non ci piace, perché è mutuato dal comportamento animale, dal comportamento del gruppo che aggredisce il più debole al suo interno. Già in passato la trasposizione di concetti dal comportamento degli animali all’uomo ha causato errori enormi. Per esempio, quando si è cercato di legittimare e addirittura di accreditare l’approccio autoritario e coercitivo nel cosiddetto trattamento delle tossicodipendenze, sono state riportate sull’uomo osservazioni eseguite sugli animali in laboratorio. A partire dal fatto che negli animali fosse abbastanza facile interrompere con questo sistema la dipendenza dagli oppiacei, si è pensato che intervento autoritario, clausura, elettroshock e distruzione della memoria legata all’esperienza di assunzione di droghe fossero utili anche per gli uomini. Così sono nati i “miracoli” chiamati cliniche psichiatriche specializzate, San Patrignano e altri centri simili.
La realtà che ci circonda è fortemente negativa in questo senso e molte situazioni di attacco e di isolamento in cui Antonucci si è trovato negli anni sono ancora, purtroppo, di attualità. Quali altri problemi, attualmente, connotano questa realtà? Ricordo che l’elettroshock viene ancora molto usato in ambito psichiatrico, anche a Bologna. Quella che chiamo “cittadella psichiatrica” continua a consolidarsi, soprattutto all’interno delle istituzioni. La gestione dei trattamenti sanitari obbligatori avviene tuttora con brutalità, basta leggere la procedura usata nel corso della gestione dei T.S.O., che si conclude con la mobilitazione, quasi di tipo militare, di tutti gli infermieri della struttura e, nel caso di “tenace resistenza”, come si diceva una volta nelle cartelle delle persone recluse nei reparti psichiatrici, che ricorda anche Giorgio Antonucci, “si possono tamponare le vie aeree delle persone per vincerne la resistenza”. C’è il superamento costante, nella maggior parte dei comuni italiani, dell’uso del T.S.O.; a Bologna era stato previsto un tetto di venticinque ricoveri di questo tipo all’anno, ma tale tetto viene costantemente superato e, secondo l’ultima rilevazione, ne sono stati comminati trentasei. Ci sono poi casi estremi che riguardano ancora internamenti in O.P.G. per motivi anche banali, come il non rispetto dell’obbligo di residenza.
Credo che occorra dare l’esempio e informare le persone più giovani, che stanno incominciando da poco a occuparsi di questi problemi, e ricordare loro con decisione che le questioni introdotte e evocate da Giorgio Antonucci hanno a che fare con la storia, ma, purtroppo, hanno a che fare, tremendamente, anche con l’attualità. Credo anche che possiamo arrivare a essere consulenti della società civile nei casi di violenza della psichiatria.