PER UN’ECONOMIA DEI FINI
Il libro Come divenire imprenditore nel ventunesimo secolo è suggestivo da molti punti di vista, è interessante sia per il neofita sia per lo specialista, per l’imprenditore, per l’amministratore pubblico. Ben vengano libri che si situano in quello spazio, nel nostro paese amplissimo, tra il livello giornalistico e quello accademico. Quando un accademico vuole offendere un collega dice che ha un piglio giornalistico, d’altra parte i giornalisti quando vogliono usare un sinonimo di “irrilevante” dicono “accademico”. Ma tra i due estremi ci sono tanti spazi interessanti e il libro di Fontela efficacemente ne occupa molti.
Ho trovato molto suggestivi, interessanti e provocatori sul piano intellettuale alcuni passaggi, che vorrei elencare. A pagina 18, Fontela dice che “qualsiasi potere è teleologico”. Credo che ciò valga anche per il potere della chiesa: se c’è quello, ci sono tutti gli altri, forse solo perché è l’istituzione più duratura. Poi l’autore dà un’eco a tale affermazione: “Possono esistere imprese altruiste senza fini di lucro, o imprese esibizioniste che inseguono grandi volumi d’affari, imprese bellicose che si ostinano a ottenere maggiori quote di mercato o imprese anoressiche – il cui obiettivo finale è la riduzione dei costi –, ossessionate dall’imperativo di ‘buttar giù il grasso lasciando soltanto il muscolo’, o imprese solidali che cercano unicamente di fornire soddisfazione e benessere ai propri organici e alla clientela. E possono darsi anche imprese egocentriche, introverse, nelle quali l’unica finalità dell’esercizio del potere è il potere in sé e per sé”.
Al di là del gergo un po’ da Censis, quanto scrive è molto efficace perché dà l’idea che parlare della categoria impresa in senso monolitico, come spesso tende a fare chi insegna economia, è sbagliato. C’è una varietà, c’è un pluralismo di fini, che vengono in qualche modo implementati nell’azione di ciò che chiamiamo impresa, di cui è bene tenere conto, perché altrimenti rischiamo queste finte dicotomie tra Stato e mercato, come se sul mercato ci fosse un solo tipo di soggetto e lo Stato fosse sinonimo di un’unica tipologia di attori. Quindi Fontela è nel giusto quando ci suggerisce un approccio rispettoso del pluralismo effettivo, reale, empirico. L’interrogativo che ne traggo è il seguente: siccome è difficile, concettualmente impossibile, parlare d’imprese senza evocare o invocare la categoria di mercato, come tentare di gettare un ponte tra questa grande pluralità d’imprese e l’idea di mercato? Che sia difficile parlare d’imprese senza parlare di mercato credo non richieda grandi spiegazioni: se nelle economie pianificate, infatti, si parlava di unità produttiva, non era per trovare un escamotage linguistico, ma perché l’impresa suggerisce la figura di uno o più imprenditori che avviano imprese e che quindi vanno alla ricerca di attività per fare remunerare gli input. Per intenderci, nel momento in cui non ci fosse un luogo nel quale input e output, cioè fattori produttivi e prodotti, venissero scambiati, cascherebbe la stessa definizione.
Trovo anche molto efficace un altro passaggio dove Fontela è molto lieve, io sarei stato più aggressivo, nel trovare in castagna nientemeno che Adam Smith, padre della scienza economica. Lo cito perché è veramente bello: “Lo Stato, con tutti i suoi impiegati per la giustizia e la guerra, non è produttivo. Nella categoria di questi lavoratori improduttivi è necessario includere i membri delle professioni liberali, sia i più seri e importanti sia i più frivoli: i chierici, i giuristi, gli scrittori, gli attori, i buffoni, i musicisti, i cantanti lirici” e poi Fontela, probabilmente per non andare a coinvolgere quasi tutto il potenziale pubblico, ha messo un “eccetera”; forse c’erano anche gli economisti. Questo brano è molto suggestivo perché dà un’idea di quello che oggi erroneamente e feticisticamente consideriamo produttivo. Se andassimo a vedere oggi la composizione del prodotto interno lordo, sicuramente queste categorie citate sono nella parte più cospicua. Il prodotto interno lordo nelle moderne economie, nel G7 o nell’OCSE, è per il 5% dovuto all’agricoltura, per il 30-35% all’industria e per il 60-65% ai servizi. Ora, secondo questa definizione, in senso estensivo, nei servizi si annoverano tutti, compresi i chierici, buffoni, musicisti e così via. Fontela dice anche che oggi, nell’attuale dibattito critico economico, nel nostro paese come altrove, c’è gente che la pensa ancora come Adam Smith, c’è gente che ritiene che la produzione sia, più o meno tacitamente, sinonimo di produzione industriale e agricola, e il resto siano, come dicono i più spietati, parassiti, o come dicono altri, attività accessorie. La musica non cambia, la produzione vera è quella che si fa nei campi e nelle fabbriche.
Sempre per toccare dei mostri sacri della disciplina economica, c’è un altro passaggio molto bello, un’altra citazione di Adam Smith che distingueva tra spirito d’impresa – come atteggiamento che prende in esame la prospettiva di un rendimento di un capitale lungo tutta la sua vita produttiva e che investe in attività reali – e spirito di speculazione, ossia l’atteggiamento in cui l’obiettivo è di anticipare la psicologia di un mercato in un momento dato. Il primo è un imprenditore, il secondo uno psicologo. Anche Keynes intorno al 1946 riprende questa distinzione, che è stata celebrata giustamente per anni come uno dei capisaldi della classificazione di imprenditori e speculatori, ma che non ha molta ragione di esistere. Cosa vuol dire guardare al capitale nel suo ciclo di vita? Il tornio ha una vita di trent’anni, il personal computer ha una vita di un anno; allora, chi compra il personal computer è uno speculatore come chi lavora in borsa? Questa citazione è molto opportuna e Fontela l’ha inclusa opportunamente nella discussione, perché ancora ci sono studiosi che invece ritengono che questa decisione sia fondamentale: tutto il revival sulla cosiddetta Tobin Tax, per esempio, è basato esattamente su questa distinzione. Secondo Tobin, economista premio Nobel, bisogna tassare i movimenti di capitali di carattere speculativo tra paesi, cioè quelli che si muovono nel breve periodo, per evitare l’effetto destabilizzante sui tassi di cambio di questi movimenti. La ratio è ancora una distinzione di quel tipo: se un imprenditore italiano investe, apre una fabbrica in Bulgaria non lo tassiamo, se invece compra titoli bulgari e li rivende dopo due mesi dobbiamo tassarlo perché altrimenti rischia di mettere in difficoltà la moneta bulgara o quella italiana. Quindi, ben vengano queste distinzioni, perché ci consentono e ci consegnano spunti per esaminare proposte, invece, di grande attualità.
L’ultima cosa che noto di sfuggita è un dato che conoscevo già e che mi ha fatto un certo effetto ritrovare qui, e cioè il fatto che il tempo che gli esseri umani oggi dedicano al lavoro, al netto del soddisfacimento dei bisogni fisiologici, è crollato, era il 50-60% centocinquant’anni fa e oggi è il 15%, se non ricordo male. Allora, buona parte della produzione oggi si rivolge al soddisfacimento dei bisogni che le persone hanno nel tempo che non occupano sul lavoro. Quindi, mentre una volta si trattava di soddisfare bisogni primari per il semplice motivo che non c’era il tempo per i bisogni secondari, oggi, la grande sfida per chi produce beni, ma sopra tutto servizi, è come fare occupare un tempo libero dal lavoro e dai bisogni fisiologici che sta crescendo a dismisura e crescerà sempre di più, perché questo è un trend epocale.
Quali altre implicazioni possiamo trovare nel libro di Fontela? Prima di tutto, dobbiamo capire che, ogni qualvolta si parla d’impresa, è inevitabile parlare di mercato, ma per parlare di mercato dobbiamo notare che esistono due significati, due accezioni del termine mercato che vanno sempre tenute ben presenti per evitare delle derive ideologiche. Mercato è simultaneamente un meccanismo, una stanza nella quale s’incontrano coloro che vogliono vendere e coloro che vogliono comprare. Meccanismo che, in questo senso, può essere automatizzato: alcuni mercati più efficienti sono quelli della borsa – pensate agli Stock Exchange degli Stati Uniti – sono talmente anonimi che virtualmente non hanno neanche più bisogno del contatto personale, perché si incontrano degli ordini e delle offerte. E questa è una connotazione tecnica, tecnologica: mercato come meccanismo. C’è un’altra connotazione di mercato, invece, nella quale grande è la responsabilità dei soggetti pubblici e politici, cioè il mercato come istituzione sociale: l’esperienza delle economie cosiddette di transizione, quelle che sono passate da un modello pianificato a un modello centralizzato, ci insegna che non basta dire “scambiare” perché il mercato come un fungo cresca spontaneamente. Il mercato come istituzione sociale non nasce da solo, non è il frutto spontaneo del desiderio di migliorare la propria situazione, ma va istituito; e perché una cosa sia istituita occorre che ci siano degli istitutori, cioè dei soggetti che non possono che essere pubblici amministratori e politici, i quali si fanno carico di creare un contesto adeguato, perché senza un clima di fiducia, senza una moneta stabile, senza un codice civile, senza un codice penale, senza alcune infrastrutture giuridiche e amministrative, la volontà dei singoli non porta agli scambi. Se non ci fosse la legge, non ci sarebbero le consegne a domicilio, perché uno non paga prima di ricevere e uno non consegna prima di ricevere i soldi; però, le Poste o un sistema che garantisca la consegna non è endogeno al mercato, è qualcosa di esterno che va appunto istituito, al di là degli aspetti monetari e finanziari.
Una seconda considerazione ancora più pragmatica è su un termine oggi un po’ usato, globalizzazione, e ho apprezzato che Fontela non ne abbia abusato. Occorre prendere atto del fatto che rispetto al passato quello che noi oggi chiamiamo globalizzazione ha sempre meno reso rilevante ciò che nel passato era straordinariamente rilevante, cioè la localizzazione. Come chiave di lettura della storia economica contemporanea, dalla rivoluzione industriale in poi, il “dove” era importante: se eri nel Mitchigan, per fare impresa andavi nel distretto automobilistico, se eri a Sassuolo probabilmente era più facile produrre ceramiche; o pensiamo alla localizzazione delle imprese vicino ai corsi d’acqua o alle vie di trasporto. Oggi sappiamo che non c’è più tale stretta corrispondenza tra ciò che succede e dove succede, grazie alle innovazioni tecnologiche, mentre il fattore tempo è diventato ancora più cruciale che in passato, proprio perché, essendo tutti in rete, il vero vantaggio consiste nell’essere, prima che nel fare, nel sapere prima degli altri, nel saper fare. Questo ha grandiose implicazioni politiche ed economiche, per cui parlare oggi di aree depresse, nei paesi sviluppati, è una contraddizione interna, perché una volta area depressa era qualcosa di connaturato a quel territorio, oggi sappiamo che la depressione, se c’è, dipende dal capitale umano, dalle infrastrutture telematiche, dall’inefficienza della pubblica amministrazione, non dal fatto di essere sopra o sotto, sul Po, in collina o in montagna. Questo è importante perché ricordiamoci che le nostre politiche territoriali sono inevitabilmente impregnate di questo pregiudizio localistico, o per dir così, localizzativo.
Nell’ultimo capitolo del libro di Fontela, “L’era dell’Europa”, ho trovato molto interessante sopra tutto quando si parla dell’Europa allargata o allargabile. Ai fini di un ragionamento sull’imprenditorialità dell’Europa dell’Est, dobbiamo dire che essa è un coacervo molto differenziato dal punto di vista etnico. Recentemente per presentare la Regione Emilia Romagna sono stato sia in Bulgaria sia in Ungheria. Sono entrambe Europa dell’Est, ma con distanze e differenze molto evidenti. Resta però il fatto che oggi questi paesi, sicuramente più la Bulgaria che l’Ungheria, rappresentano straordinari laboratori dal punto di vista degli spazi imprenditoriali, rappresentano quello che noi descriviamo in astratto nei libri di testo: sia come meccanismo, sia come istituzione sociale, in questi Stati i mercati sono ancora solo abbozzati. Oggi competono i sistemi territoriali, più che le singole imprese, ma quali sono le conseguenze di ciò? Andiamo a leggere che cosa diceva l’Atto Unico del Mercato Europeo del 1985: “Bisogna creare un unico spazio – quello che poi è diventato il Mercato Unico Europeo – per promuovere, favorire la libera circolazione di merci, servizi, persone e capitali”. Non c’è ombra di dubbio che servizi e capitali girano da soli, basta togliere i vincoli, non c’è bisogno di grandi infrastrutture; mentre i problemi riguardano sopra tutto la mobilità delle merci e delle persone, perché lì le barriere non si tolgono per decreto legge, occorrono faticose rimozioni di fattori culturali, linguistici, ecc.
Per concludere, sapete che l’economia come disciplina è stata autorevolmente battezzata come la sad science, la triste scienza o la scienza tetra, perché economista è sinonimo in alcuni casi di economo, in altri è colui che si occupa di allocare le risorse, dati i fini. Una delle cose che ho molto apprezzato in questo libro è che ci dà molti spunti per pensare che l’economia sia ormai sufficientemente matura per permettersi di discutere anche dei fini e non solo dei mezzi.