CELLULE E POESIA
La sua formazione è di tipo scientifico, ma anche di tipo letterario: lei è ordinario di Istologia ed Embriologia all’Università di Palermo, ma è anche poeta e autore di saggi di critica d’arte e di letteratura. Come sono nati e come si sono sviluppati questi due ambiti d’interesse?
I miei percorsi sono gemmati, da giovanissimo, pressoché contemporaneamente: studio dell’anatomia e vocazione alla “parola”. D’altronde, l’insegnamento universitario di istologi, anatomisti, morfologi, vale a dire studiosi della forma, avvicina metaforicamente ai grammatici che analizzano e notomizzano la parola. C’è, dunque, un’anatomia del linguaggio (vero e proprio corpo del linguaggio) e un’anatomia del corpo organico. Nel tempo della formazione questi due interessi si svolgevano su due versanti paralleli, in una sorta di gemellaggio spirituale e intellettuale. Oggi, dopo tanti anni, confesso che non saprei più distinguere la morfologia della parola da quella del corpo. Nel senso che l’ecosistema cellulare si mostra sempre più fornito di quell’intimità essenziale che ritroviamo, sotto altri aspetti, filtrata nella stessa parola.
L’embriologia si occupa delle cellule e del loro sviluppo. In questi anni la ricerca intorno alle cellule staminali ha avuto una vera accelerazione. Può dirci qualcosa, anche a partire dalla sua ricerca?
Da diversi anni le cellule staminali esercitano sulla comunità scientifica un indiscutibile fascino. Il mio interesse primario è stato rivolto al loro fenotipo, cioè come si mostrano esteriormente, come si distribuiscono nello spazio biologico e di quanto mutino durante le molteplici fasi della loro funzione vitale. Una delle maggiori sorgenti di cellule staminali è, com’è noto, il cordone ombelicale, un annesso embriofetale che collega il nascituro alla madre. Da tempo mi occupo delle cellule che lo “abitano”: fibroblasti, cellule mesenchimali, che, ritenute popolazioni omogenee, oggi risultano essere diverse tra loro, per aspetto, funzione e potenzialità espressiva. Sono elementi cellulari capaci di trasformarsi, differenziarsi in tante altre entità biologiche, quindi assumere caratteri sempre più maturi, e, se ambientate in altri territori o stimolati dai cosiddetti fattori di trascrizione, possono sviluppare capacità ri-differenziative, vale a dire trasformarsi radicalmente in altri citotipi. Oggi c’è stata, fuor di dubbio, una forte accelerazione su tale frontiera; tutta la ricerca di base, con l’ausilio della biologia molecolare, delle biotecnologie, dell’embriologia chimica, sta determinando benefiche ricadute sull’embriologia clinica. Primi lusinghieri risultati sono l’effetto della crescita vorticosa degli studi di genetica, di immunologia, di proteomica; ora si sono in parte chiariti quali possono essere gli errori genetici e come ad essi sia possibile porre un certo riparo, non soltanto attraverso la ricostruzione dei geni (evento ancora futuribile), ma attraverso la coltura cellulare e tissutale. Inoltre una prevenzione eugenetica può oggi trovare maggiore e ulteriore conforto nel miglioramento del macroambiente, dell’alimentazione e di tutta una serie di fattori che sono correlati alla stabilità genetica e metabolica, al rafforzamento del microambiente cellulare.
Leggiamo sempre più spesso che l’utilizzazione delle cellule staminali può avvenire anche in patologie dell’età adulta anche piuttosto diffuse per impatto clinico e morbilità. Può farci qualche esempio?
Certamente. Anzi, questo aspetto ha rivoluzionato le nostre conoscenze sulle cellule. Noi siamo stati abituati a classificare le cellule, secondo un lontano schema didattico elaborato all’inizio del XX secolo da Giulio Bizzozero, in “labili”, “stabili” e “perenni”; in relazione al loro ciclo vitale e alla loro capacità rigenerativa, le labili sono quelle che posseggono un indice di proliferazione molto elevato. Ciò in considerazione del fatto che la moltiplicazione delle cellule, guidata da fattori di crescita (IGF-1, IGF-2, GH) e da particolari segnali biochimici, consente alle cellule di proliferare, di differenziarsi e di ri-differenziarsi, cioè di acquistare fenotipo più “maturo” e adatto a più elaborate funzioni. I neuroni, per esempio, cioè le cellule del tessuto nervoso, differenziandosi precocemente, non si rigenerano; una lesione degenerativa non consente loro di ricostituire il loro patrimonio strutturale e funzionale. Le cellule staminali, governate da particolari geni detti Polycomb, possono, invece ri-differenziarsi, sostituirsi, sia morfologicamente sia funzionalmente, a cellule danneggiate in modo irreversibile. Le terapie utilizzate per l’infarto del miocardio potranno essere potenziate con innesti di stem cells, ripristinando così il miocardio leso. È questa un’importante informazione: le cellule che hanno capacità di rigenerazione non rimangono quindi vincolate geneticamente al loro ruolo (genotipo), ma, se occorre, possono trasformarsi in altri citotipi. Si tratta di studi sperimentali, ma di grande proiezione nell’immediato futuro. Personalmente ritengo che ci sia una grande possibilità di ricostruzione dei tessuti in situ; e si tratta di una prassi poco invasiva, dove un’adeguata e guidata perfusione di cellule nel territorio leso può avviare un processo bioarchitettonico di grande capacità riparatrice, un rapporto fecondo sostenuto dall’attività “paracrina”, vale a dire quella capacità che alcune cellule hanno di elaborare prodotti pronti a influenzare le “compagne” più vicine, consentendo loro di mantenere e modellare il loro aspetto e la loro funzionalità. Forma e funzione, l’antico assioma di un grande precursore dell’ateneo bolognese: Angelo Ruffini.