UN ALIBI PER LA VITA
Questo primo numero della rivista “La Città del Secondo Rinascimento” riporta testi e interventi sorti lungo il dibattito suscitato in Italia dal libro di Emilio Fontela Come divenire imprenditore nel ventunesimo secolo (Spirali edizioni). Economista, protagonista del movimento “The Second Renaissance”, studioso di cifrematica, Fontela si avvale della sua ricerca e della sua pratica internazionale per indagare le questioni e le categorie dell’economia, ritrovandole, lungo una lettura, nel testo culturale e scientifico dell’occidente. Il mercato, il lavoro, la produzione: “i tre mondi” (per riprendere il titolo del famoso libro di Jacques Attali) che da sempre definiscono gli ambiti dell’economia risultano come non mai questioni essenziali nell’itinerario di ciascuno, aspetti della logica della vita e non espedienti per la tecnica della sopravvivenza.
L’esigenza di un’economia nuova emerge perché per troppo tempo l’economia è stata il discorso del catalogo delle necessità, della distribuzione delle risorse, della soddisfazione dei bisogni. È risultata così esorcismo della morte, segnatamente di fame e di freddo, dunque economia della sopravvivenza. Economia fatta dal sacrificio, minimo male socialmente necessario, che Freud individuava precisamente nella messa a morte del padre e nell’incesto: economia contro il padre, le donne, la sessualità, per una gestione del godimento di cui il salario dovrebbe essere il risarcimento. Unica sicurezza la morte, che sancisce un mercato e un’impresa di cose inerti e finite, esposte a ogni senso e significazione.
A nulla vale passare dall’economia di mercato all’economia dell’impresa, a quella del terziario avanzato, a quella delle nuove tecnologie della comunicazione (net economy) se i presupposti restano, romanticamente, quelli del risparmio contro il dispendio, dell’investimento condizionato dalla paura della fine, della comunicazione come globalizzazione della mentalità. Già Freud aveva notato nel Motto di spirito che più che del risparmio il godimento è effetto di dispendio, in Oltre il principio di piacere che l’investimento è pulsionale e comporta l’infinito, in Mosè e il monoteismo che l’invenzione procede dalla tradizione, non le si oppone. Occorreva la psicanalisi del secondo rinascimento, la cifrematica, per esigere un’economia senza sostanza e senza soggetto, che sono le due ipostasi per il riferimento alla morte (cfr. l’editoriale del numero zero). L’economia della cifrematica, l’economia nuova, è economia nella parola non del discorso, del logo, basato sui presupposti filosofici di Platone e di Aristotele, in cui la domanda fonda la risposta e il sistema garantisce la circolazione, prima di tutto del sangue, che per Aristotele è il bene economico per eccellenza.
Ma non al logo greco, bensì all’ebraismo è spettato porre per primo l’esigenza di un’economia nuova, che ha la sua condizione nella moneta e non nel possesso, nell’astrazione e non nell’idolatria (come annota Nadine Shenkar nel suo bel libro L’arte ebraica e la cabala): in questa direzione è da leggersi il divieto biblico dell’usura, come divieto della localizzazione, padroneggiabilità, raffigurabilità del profitto, come impossibilità di assumere quell’usura insituabile nella parola che ne rilascia il profitto intellettuale, quando l’uso è già abuso, e il superfluo è già necessità. E sulla scia dell’ebraismo Freud ha trovato le leggi dell’economia non dove il logo le rappresentava, cioè nella contabilità algebrica delle merci, delle donne, dei soldi, ma nella realtà psichica, in un’altra scena (Ein andere Schauplatz), in un altrove, in un oltre che non è un al di là.
Altrove, in latino alibi: l’economia, scrive Armando Verdiglione nel Giardino dell’automa, è alibi della parola, come altrove dalla rappresentazione, altrove dalla sostanza, altrove dalla necessità. Alibi l’economia perché mai domestica, mai familiare, bensì linguistica: sintassi incodificabile perché altrove dalle parentele e dalle genealogie che, da Aristotele a Levi-Strauss, garantiscono l’economia del sangue, cui le donne non riescono a partecipare. Economia che procede dall’apertura originaria, non dalle coperture, dai patti sociali. Per questa apertura la questione economica resta questione del padre, del nome, della sintassi nella parola, non della morte al di fuori della parola. Questione dell’intoglibilità dello zero, per incominciare a dire, a fare, a guadagnare, non della possibilità dell’azzeramento cui sopravvivere. L’economia è un alibi per la vita senza soggetto e senza sostanza, non per sopravvivere nella padronanza (old economy) e nella dipendenza (new economy). Come fare di quest’altrove, di quest’alibi la via facile, naturale, senza postulare un’economia convenzionale, dunque negarne la portata inconscia, la sua difficoltà, la sua sintassi dal godimento irrappresentabile? Come farne una giustificazione per legittimare il soggetto della povertà o della miseria o del bisogno? Sarebbe creare un alibi dell’alibi, tentare di codificare una grammatica per la significazione dei soldi, delle merci, delle donne, da portare, magari grazie a Internet, a un mercato dove tutto è sostituibile e convertibile in tutto, con una globalizzazione della stupidità, un mercato già pronto in cui importerebbero l’accesso, l’adesione, l’utilizzo, come un gran paese dei balocchi senza più autorità, incominciamento, aumento.
Internet e le telecomunicazioni, nella loro logica e non nella loro mitologia, tendono a sottolineare questa insostanzialità dei beni che esistono e si scambiano nella telecomunicazione, non nella spazializzazione del mercato e della produzione. Ma l’economia nuova non è la new economy, che, come nota Elserino Piol in questo numero, non esiste, come del resto l’old economy. L’economia nuova è l’economia dell’instaurazione della parola originaria, senza più riferimento al discorso della morte: rete non codificabile, scambio non sostanziale, lavoro di ricerca, produzione intellettuale che possono avvalersi delle nuove tecnologie come apporto per costituire dispositivi di ricerca, di vendita, d’impresa nuovi perché non dipendono dal sistema naturale, cioè convenzionale, ma dal cervello artificiale, cioè intellettuale. L’impresa del terzo millennio, scrive Emilio Fontela, esige brainworkers, lavoratori di cervello. Ma il cervello non è individuale o collettivo, e non è strumento di conoscenza e di mentalità: il cervello è temporale, dispositivo di direzione in cui ciascuno esiste. Una direzione di qualità, garantita dall’assoluto e assicurata dal rischio di vita, che consenta che la rivoluzione delle telecomunicazioni segua il volgersi delle cose nella spirale verso la loro cifra e non confermi la circolarità della significazione.