SENZA RISCHIO NON C'È IMPRENDITORE
Il titolo di questo numero della rivista è "L’impresa. L’avventura e il rischio". Può parlarci della sua avventura imprenditoriale e di come e quando rischiare è risultato essenziale?
Il rischio è una componente indispensabile per fare impresa. Io credo che la legittimazione a essere un imprenditore o un dirigente stia nel prendere dei rischi, come dicono i francesi, “prendre des risques”. Altrimenti non ci sarebbe ragione per dire che siamo classe imprenditoriale. La nostra missione è creare ricchezza. Naturalmente, questo porta come conseguenza l’esigenza di confrontarsi in un mercato libero e prenderne i rischi. Io ho incominciato vent’anni fa e credo di essere stato sempre costretto a seguire questa logica.
Potremmo passare alla situazione attuale, che è leggermente diversa. Nella situazione attuale il problema è che noi siamo stati abituati a un mondo regolamentato, chiuso, anche se formalmente eravamo un mercato capitalistico, e tutto questo ha portato all’abitudine degli imprenditori, e del paese insieme agli imprenditori, a lavorare con la svalutazione competitiva e con un aumento del debito pubblico. Questo oggi non è più possibile. Le difficoltà di oggi nascono nel 1970, quando un debito pubblico che si è sviluppato in maniera anormale ha portato a uno spostamento di ricchezza insolita all’interno delle famiglie, ricchezza che poi non è stata reinvestita, perché era più vantaggioso avere dei Bot e dei Cct. La situazione attuale, quindi, era scritta nella storia dal 1970. Una società chiusa, un sindacato che regolamentava troppo tutto. Lo choc di cui stiamo soffrendo, oggi che questo non è più possibile, dipende proprio da queste premesse.
Il rischio, la sfida è molto difficile oggi. Io credo che gli imprenditori italiani continuino a avere un elemento di rischio nel DNA, quindi, continueranno a assumerlo. Purtroppo, i risultati e le preoccupazioni sono molto alte, mentre occorrerebbe un equilibrio tra rischio, sfida e risultati. Oggi questo equilibrio sta scompensandosi in maniera drammatica, quindi, non posso fare alcuna previsione in merito. Mi auguro che, dato che sappiamo fare solo questo, continueremo a farlo.
Lei pensa che gli imprenditori italiani amino ancora il rischio e l’avventura, oppure dinanzi alle difficoltà economiche e finanziarie tendano a richiudersi e a stare sulla difensiva?
No, questo c’è sempre stato. Oggi c’è questo vezzo di dire che ci si rifugia nella finanza e nell’immobiliare. Gli immobiliaristi e i finanzieri, coloro che decidono d’investire nella finanza ci sono sempre stati, il problema di oggi è che sta diventando straordinariamente difficile e problematico fare industria. Fare manifattura oggi è un problema drammatico. Credo che bisognerebbe prendere atto del fatto che dobbiamo, il più rapidamente possibile, spostare la produzione dalle braccia ai cervelli, smettere di produrre manualmente certe cose – perché non possiamo confrontarci con paesi dove il costo del lavoro è un decimo rispetto al nostro – e usare sempre di più i cervelli.
L’Europa può essere un’opportunità per le imprese oppure un ulteriore aggravio burocratico?
L’Europa è nata come una grande opportunità. Io credo che lo sia ancora, ma non posso nascondermi che, da quello che vedo e che vivo giorno per giorno in giro per il mondo, è vissuta più come un apparato burocratico che crea vincoli anziché come opportunità.
Forse, le difficoltà interne e i problemi internazionali – per esempio, la Cina – potrebbero risultare una chance per spronare di nuovo gli imprenditori?
La Cina non è altro che l’estremizzazione di quello che viviamo oggi in giro per il mondo. Dal 1995 i mercati sono aperti, sono stati liberalizzati, le frontiere non ci sono più, non ci sono più le dogane, non ci sono più i dazi, cosa che io vedrei con estrema preoccupazione anche oggi. Però, il problema della Cina è un problema leggermente diverso: la competizione con la Cina è tra sistemi aperti e democratici, da una parte, e gli schiavi, dall’altra. Questo sta scompensando tutto. Io non ho la soluzione a questo problema, credo però che la Cina potrebbe essere l’eccezione nella regola. A proposito della Cina mi viene in mente il detto “Primum vivere”, la prima cosa è stare al mondo, le altre vengono dopo.
Qual è l’apporto culturale e civile che l’imprenditore con la sua testimonianza e il suo esempio può dare al paese per ciascun cittadino?
Io credo che, al di là di quello che può fare, l’imprenditore debba fare il mecenate personalmente e non come azienda. Allo stesso modo in cui non deve speculare in Borsa come azienda, l’intervento nella cultura deve farlo come privato. C’è però un aspetto nel nostro paese che, secondo me, dovrà essere rivalutato: il turismo culturale. Credo che noi abbiamo risorse veramente importanti, che non sfruttiamo, non sulle nostre spiagge, ma nelle nostre cattedrali e nei nostri musei. Questo credo che sia ciò a cui bisogna lavorare e ciò in cui anche gli imprenditori dovrebbero investire di più.