LA MIA IRA
Nel suo libro La mia ira (Spirali), nel capitolo Sberleffi d’altro mondo, sull’altermondialismo, lei dice che un conto è l’ingiustizia e un altro è combattere l’ingiustizia con altra ingiustizia. In che senso il movimento dei no global propone un’altra ingiustizia?
È vero che l’idea di altermondialismo, dei no global, è una bella idea: altermondo vuol dire altro mondo. Ciascuno di noi sogna un altro mondo, un mondo più giusto, dove le persone siano felici. È il sogno di tutte le grandi religioni monoteiste e di tutte le ideologie laiche. Ma poi vediamo che le stesse persone, impegnate nella battaglia per quell’altro mondo, introducono un odio che il nostro mondo ha già pagato molto caro: l’odio contro Israele, l’odio contro gli ebrei, l’odio contro chi approfitta troppo dell’economia di mercato, e così via. Sappiamo che cosa è successo a Durban, in Sudafrica, e sappiamo che presto ci sarà un altro grande meeting dei no global da qualche parte, per esempio, in Libia, con il grande democratico Gheddafi. La globalizzazione però è qualcosa di straordinario, era già il sogno di Stefan Zweig, nel suo libro Die Welt von Gestern (Il mondo di ieri). Era il sogno dei grandi intellettuali fra le due guerre, il grande sogno di un mondo senza frontiere, dove gli uomini, le idee e le merci potessero muoversi liberamente da un paese all’altro del pianeta, senza ostacoli e controlli, in modo tale che ciascuno potesse trarre vantaggio, il lavoro potesse essere ben retribuito e ci fosse condivisione. Ma poi, improvvisamente, questa bellissima idea è stata accaparrata da qualche gruppo fanatico, estremista, gauchista – il gauchismo è morto con le brigate rosse, ma l’abbiamo avuto anche noi, con Action Direct, e anche la Germania – ne ha fatto un altro cavallo di battaglia. Trovo che questo è pericoloso, perché non siamo ancora riusciti a imporre la vera democrazia nei nostri paesi. Certo, rispetto a ciò che accade in altre regioni del mondo, la Svizzera, l’Italia, la Francia e altri paesi d’Europa sono un paradiso, però non abbiamo ancora vinto la battaglia fino in fondo. E poi, come diceva Otto Hieronymi del suo paese, la Svizzera, il razzismo, la xenofobia sale sempre più perché le persone che hanno molti vantaggi non vogliono condividerli con gli altri e, quando vedono arrivare ondate d’immigrati, di persone provenienti da altri paesi, incominciano a rinchiudersi in loro stessi e le idee di fascismo, di nazismo e di totalitarismo ritornano a galla. Quindi, è una lotta che bisogna costantemente ricominciare e rilanciare. Se questa lotta viene però recuperata, utilizzata da gruppi di estremisti, che in futuro andranno a manifestare davanti ai grandi dibattiti che si tengono a Davos, con i G7 o i G8, ebbene, dobbiamo ricordare che i nostri nemici non sono a Davos, ma da qualche altra parte, sono i terroristi, quelli che impediscono agli uomini di crescere rigogliosamente, di sviluppare la libertà, sono loro che riducono costantemente ciascun giorno la nostra libertà. Ecco perché nel mio libro c’è un capitolo in cui sono veramente molto adirato a questo proposito.
Lei pensa che l’economia e l’industria siano un’occasione o un ostacolo per la pace mondiale?
L’economia ha un ruolo molto importante, fa parte della nostra vita quotidiana. Se potessimo far lavorare la maggior parte dei palestinesi, la loro opinione su una soluzione pacifica con Israele potrebbe cambiare. Una persona che ha un lavoro da proteggere – questa è una teoria marxista, ma sta ancora in piedi – è differente da una che non ha nulla da perdere. È ciò che diceva già Marx nel Manifesto del Partito Comunista, pensava che i proletari avessero da perdere solo le catene, quindi potevano morire, magari facendo morire altre persone: è questa la teoria su cui si basa il terrorismo. A partire dal momento in cui si ha qualcosa da perdere, ci si pensa due volte prima di mettere in discussione l’intero sistema in cui si vive. Quindi, ritengo che l’economia svolga e svolgerà in futuro un ruolo sempre più importante, perché mondiale, cioè totale: quando oggi si starnutisce a Shangai, prendiamo l’aspirina a Parigi e a Modena. Prima c’erano due mondi: lì c’era un mondo comunista, che viveva all’interno di un’economia superpianificata, un’economia statale, e qui un’economia di mercato. Oggi le cose sono cambiate, l’economia, per dir così, democratica ha vinto la propria battaglia dappertutto. Ovunque andiate, a Mosca o a Pechino, la sera guardate i risultati della Borsa sul “Wall Street Journal”. Quindi, è vero, sul piano economico, viviamo con lo stesso ritmo in tutto il mondo. Ma tutto questo è anche pericoloso, perché un passo falso, una cattiva valutazione o un cattivo utilizzo di questi mezzi economici possono distruggere il mondo in un attimo. Supponiamo, per esempio, che domani i cinesi ritirino e incassino tutti i miliardi di dollari che hanno investito nell’economia americana: l’economia americana non potrebbe fare altro che crollare e, com’è risaputo, se crolla l’economia americana, noi crolliamo a nostra volta. E quando crolla l’economia, gli uomini diventano folli, abbiamo visto tutti le immagini trovate all’interno degli archivi che si riferiscono all’epoca del proibizionismo negli Stati Uniti fra il 1921 e il 1931, quella a cui è seguito il New Deal di Roosvelt. Ebbene, le persone prendevano d’assalto le banche, bruciavano tutto, perché il denaro che avevano depositato in banca non valeva più nulla. Quindi, ripeto, da una parte abbiamo sicuramente vinto, però occorre essere attenti al modo di gestire questa vittoria.
Come vede il boicottaggio degli scrittori israeliani alla fiera del libro di Torino?
Come ho già detto intervenendo anche sulla stampa italiana, lo stesso problema si è verificato per la fiera del libro di Torino e per la fiera del libro di Parigi. Il boicottaggio è reclamato da tre parti: ci sono i paesi totalitari arabi, e questo non può che farci ridere, dato che in Iran non esiste la libertà di espressione. È come se la Germania di Hitler, che ha bruciato i libri di Thomas Mann e di altri scrittori, non solo ebrei, poi volesse fare lezione nelle fiere del libro dei paesi democratici.
Poi ci sono gli occidentali, i comunisti di Torino o altri come Dario Fo, con cui ho avuto una discussione violenta sulla stampa, anche su “Le Monde”, che si sono impegnati in questa faccenda forse con le migliori intenzioni: è vero che occorre pensare alle condizioni dei palestinesi, è vero che esiste un problema palestinese, finché i palestinesi non avranno uno stato, come tutti, del resto. Anche se non vorrei dire che lo stato sia il fondamento della felicità, perché ogni stato poi produce la propria polizia e le proprie prigioni. Però, forse, preferiremmo essere torturati da qualcuno che parla la nostra stessa lingua, piuttosto che da qualcuno che viene dall’esterno. Sarà, ma la tortura è sempre la tortura. I palestinesi fanno bene a rivendicare uno stato e per questo mi sono recato a Oslo. È chiaro che se non ci fosse stato l’assassinio di Sadat – anche se è avvenuto a opera di un egiziano – e se non ci fossero stati altri omicidi da parte di israeliani, forse non saremmo qui. Oggi, comunque, ci sono persone che hanno buone intenzioni, ma le buone intenzioni non bastano.
E, infine, ci sono gli antisemiti. È vero che nei nostri paesi democratici non è una bella cosa essere antisemiti, ma si può diventare antisemiti con motivazioni buone. Di recente ho partecipato a un dibattito televisivo con uno scrittore algerino, che parlava degli scrittori israeliani come se fossero ebrei. “Scusi – gli ho detto – lei fa confusione: io sono francese ma anche ebreo, fra gli scrittori israeliani ci sono scrittori arabi, ortodossi o cattolici. Israele è un paese con la sua lingua, per cui gli abitanti di questo paese scrivono in ebraico, una lingua che si utilizza ormai da più di tremila anni e se Gesù oggi fosse qui parlerebbe questa lingua”. Quindi, in realtà, alla base di questo boicottaggio c’è anche una grande confusione.