IMITARE L'IMPRESA DELLE NUBI
Nel libro di Ennio Cavalli Cose proprie. 1973-2003, sono state raccolte la maggior parte delle poesie da lui scritte, tratte dalle opere L’infinito quotidiano, Trent’anni, Carta intestata, Po e Sia, Libro di storia e di grilli, Libro di scienza e di nani, Bambini e clandestini. Raccogliere tutte le poesie scritte espone a una differenza di piani, a seconda dei periodi in cui sono state scritte, il modo, il senso, il contenuto. Mi sono piaciute di più quelle sul servizio militare Naja tripudians, perché non solo registrano un “assalto” al quotidiano della realtà, ma seguono un ritmo narrativo che ha un riferimento anche alla poesia sperimentale degli anni in cui sono state scritte; danno una sensazione di “compattezza spigolosa”. Non che poi gli altri testi non abbiano questo, ma qui lo si riscontra in modo più accentuato.
Ripellino, un critico rimpianto, un critico “caucasico”, come lo definisce Cavalli, parla di Naja tripudians dicendo: “Su questo grottesco, l’autore innalza strutture allegoriche, condensando gli interpreti della naja nelle sigle miles gloriosus eroticus simbolicus. Linguaggio ellittico, smozzicato, scattante come una sfilza di ordini. […] Quel condensato di nausea e di noia che ha nome ‘naja’ in alcuni passi si allarga all’intero universo, come se tutto di naja fosse ingombro il cosmo intero”. Ma, in ogni caso, non è che soltanto la naja sia una forma di noia che si estende verso il mondo, è una sorta di condizione in cui l’autore si trova e dove gli elementi realistici escono fuori dalla poesia rompendo il gusto della lettura, creando quindi delle dissonanze, come certamente poi accade quando si abbandona il terreno della lirica e si entra nei terreni cosiddetti narrativi che fino a poco tempo fa erano così di moda. Invece direi che in Naja, anche in virtù di questo riferimento alla poesia sperimentale, gli elementi realistici discorsivi riescono a contenersi, a restare compatti. D’altra parte, qual è la differenza fra una poesia e l’altra, fra una poesia lirica e una poesia che lirica non è? Mentre una poesia lirica mantiene un suo carattere decisamente interiore e, quindi, legato a simbologie molto precise – alberi, luna, terra, mare, una donna al massimo –, la poesia che vuole, non dico evadere da questo tipo di gabbia lirica, ma in qualche modo affrontare il mondo, bisogna che si serva anche di altre parole, di altri elementi, di elementi cosiddetti realistici. E di questi elementi Cavalli se ne serve con grande abbondanza, se è vero, com’è vero, che esiste un tracciato, un viaggio, esistono personaggi, situazioni, cambiamenti di tono.
Ci sono testi di Cavalli in cui egli si chiede che cosa sono le parole, come per esempio Qualcuna, dove c’è un’analisi che chiamerei “di limite”: “Superlativo di adesso è mai più./Di acceso, arso vivo./Più che vicino significa dentro,/oppure denso, fiato, fede./Al culmine dell’allegria, il disinnesco./Superlativo di inoltre è un bel nulla,/ovvia ripetizione o viceversa./Se guardi le parole in controluce,/qualcuna è vera”. Questo testo rientra tra i miei preferiti, in quanto mette in guardia sull’uso delle parole e soprattutto indica una riflessione, che in questo caso mi sembra più che riuscita: se guardi in controluce le parole, qualcuna di queste parole può darsi che in qualche modo sia vera (“Se il ver ti disse, quel ver ei t’ingannò”, pensate a questo detto su un palcoscenico teatrale). “Superlativo di adesso è mai più”: qui si tratta non solo della falsità delle parole, ma anche del loro involontario uso. Il poeta, è vero, abita la pagina con le parole, ma di queste parole non solo non è sicuro ma in ogni caso alcune di queste parole sono inconsapevoli: voglio indicare la parola albero ma in realtà sto parlando di una casa. Un po’ come diceva Hofmannsthal, noi non sappiamo mai veramente chi amiamo e così noi, non dico che non sappiamo che cosa scriviamo, ma il significato di una parola o di un verso o di una poesia intera finisce per chiarirsi col tempo, “diventa in controluce” e, forse, in controluce si vede che qualche verso è vero. “Ciò che evapora si condensa:/lo sa il poeta che imita l’impresa delle nubi”, leggiamo nella poesia Acqua.
Tentare, fa parte del poeta; imitare l’impresa delle nubi, cioè esistere e nello stesso tempo dissolversi e sempre nello stesso tempo trascorrere, trascendere… direi che quel verso è molto bello, cioè riuscito.