ALIMENTAZIONE E SALUTE

Qualifiche dell'autore: 
direttore del Dipartimento di Scienze degli Alimenti dell'Università di Bologna

Nel libro di Zhou Qing, La sicurezza alimentare in Cina, ho trovato alcune analogie con la situazione italiana di quarant’anni fa e, per alcuni aspetti, addirittura di qualche decennio prima.

Se è vero che tutto il mondo è paese, è ancor più vero che la globalizzazione fa sì che da noi arrivino prodotti alimentari da paesi dove, per questioni di ordine organizzativo ed economico, i mezzi di controllo non sempre sono utilizzati in maniera decisa.

Occorre dire che qualsiasi prodotto alimentare contiene quantità grandi o piccole di sostanze nocive, ma una sostanza è tossica quando è presente in quantità che superano i valori ammissibili.

Questi valori possono essere molto lontani o molto vicini a quelli massimi consentiti dalla legislazione per la sicurezza. Se sono molto lontani, la qualità del prodotto, a parità di tutto il resto, è migliore. La sicurezza è un aspetto della qualità, non è più un prerequisito, come qualcuno ancora oggi ritiene erroneamente.

In Italia c’è una consapevolezza maggiore dei rischi e la nostra legislazione in materia alimentare viene considerata una delle più puntigliose dalle altre nazioni, comprese quelle europee. Ci considerano troppo esigenti per aver abbassato la soglia di tolleranza, ma il fatto che un paese preveda, in linea generale, che non si debba avvelenare il consumatore fa capire la differenza fra consapevolezza dei rischi e legislazione. Il controllo efficace e adeguato è una conseguenza, se non segue alle leggi che impongono determinate condizioni, è come se queste non esistessero.

È inutile dare indicazioni di legge molto precise sulle quantità massime consentite se poi non ci sono i mezzi analitici e un efficace sistema di controllo. Sarebbe come non aver fatto niente.

La maggior parte dei problemi derivano da sostanze naturali presenti negli alimenti o da sostanze cosiddette xenobiotiche. Le prime portano a dire che la natura è ostile, nonostante qualcuno la consideri come una grande mamma. In realtà, è una grande mamma contro cui abbiamo lottato per secoli e la selezione che ha portato alla situazione attuale è probabilmente legata ai risultati di quelle lotte, che non sempre abbiamo vinto. Le sostanze xenobiotiche sono chiamate così perché provengono da altra fonte che non è materia prima alimentare; sono veramente tante e costituiscono contaminazioni di tipo volontario ma forse inconsapevole, poiché non se ne conosce la portata e la pericolosità. Il riferimento è, in particolare, ai processi tecnologici. Oggi sappiamo che alcuni processi sono problematici, ma, fino a qualche anno fa, non se ne sapeva nulla. Per fare un esempio, i trattamenti ad atmosfera modificata permettono di conservare le carni rosse per tempi molto lunghi. Tuttavia, l’ossigeno di cui è ricca l’atmosfera è deleterio per la carne, ne preserva l’aspetto, nel senso che sembra più rossa, più fresca e non perde liquidi, però l’arricchisce anche dei prodotti di ossidazione del colesterolo. Il problema non è il colesterolo, ma i suoi prodotti di ossidazione che fino a poco tempo fa non erano sufficientemente noti perché presenti in quantità di microgrammi per chilo e, tuttavia, già attivi negativamente. Una delle attività più sgradevoli dei prodotti di ossidazione è la produzione di placche aterogeniche, se i consumi di carne sono molto elevati.

Tuttavia, fra alimenti e salute c’è una relazione non sempre molto chiara: qualcuno sostiene, per esempio, che più grassi s’introducono e più si avranno problemi di salute, qualcun altro smentisce perché dai dati sperimentali risulta invece che questo riguarda solo la carne rossa. Ma perché quella rossa e non quella bianca?

Nessuno lo sa, però tutti sanno che c’è una correlazione negativa derivante proprio da una maggiore ossidazione del colesterolo dovuta alla luce e all’atmosfera ossigenante delle carni a prolungata conservazione nel frigorifero. Questo per dire come l’evoluzione della ricerca dà la possibilità di capire tante cose che fino a qualche anno fa erano poco chiare.

La maggior parte dei consumatori è spaventata dagli additivi, ma alcuni di essi sono usati perché indispensabili al mantenimento delle corrette caratteristiche di sicurezza del prodotto. Ce ne sono altri di cui è preferibile fare a meno, ma spesso si usano perché il consumatore ignora che il prodotto potrebbe farne a meno. Ad esempio, la confettura di ciliegie fatta in casa è quasi nera, però, quando la compriamo la vogliamo rossa. Bene, per farla diventare rossa ci vogliono due additivi coloranti. Questo vale anche per le patate fritte: quelle fatte in casa sono peggiori di quelle che acquistiamo congelate, perché i trattamenti per rendere il prodotto privo di colorazione sono utili anche a evitare che contenga una sostanza nociva, che si forma quando la patata si scurisce. Nella patata fritta ce n’è un po’ meno che nella patata cotta al forno, perché l’olio in parte la porta via e ha un effetto di lavaggio nella cottura. Quanto più la patata si scurisce tanto più contiene questa sostanza che è genotossica, quindi, potrebbe dare problemi. Va poi considerato che se questa sostanza fosse pericolosissima, come qualcuno sostiene, saremmo estinti da diverse generazioni. Quindi, ha effetti molto più limitati e, comunque, sono in corso studi a livello europeo per ridurne la quantità nei prodotti alimentari.

Oggi si vive molto di più, il che vuol dire che gli alimenti non ci uccidono. Certo, dobbiamo congratularci con la situazione in cui viviamo in Italia. I problemi descritti da Zhou Qing sono quelli che avevamo quando non ne conoscevamo l’esistenza ed erano quasi tutti problemi di origine microbiologica. Oggi, sono diminuiti perché spesso sappiamo qual è la loro fonte.