IL GERUNDIO DELLA VITA
Che cosa c’è di più conosciuto, certo, immediato della propria vita? Chi non pensa di poterne parlare con cognizione, obiettività, sicurezza? Chi non ha pronta la ricetta per gestirla? “Voglio vivere la mia vita”, “Devo dare una svolta alla mia vita”, “Adesso la mia vita è nelle mie mani” sono frasi che, volendo sottoporre la vita all’autonomia, la pongono ancora una volta in balia del fantasma di padronanza, ancorché proprio. Ma che cosa comporterebbe prendere possesso e padronanza della vita? Privarla di quel che non può essere padroneggiato, l’apertura, la differenza, la novità, che sono idealmente cercate da queste frasi e che in realtà vengono mancate, perché non dipendono dalla volontà del soggetto, ma dalla logica di quel che Sigmund Freud ha chiamato inconscio.
Dopo la breccia aperta da lui all’inizio del secolo scorso, oggi la vita non può esistere senza l’inconscio. Allora, la questione è: come vivere secondo l’inconscio? L’inconscio: nulla di negativo, di oscuro, d’illogico, bensì l’idioma, la particolarità della parola. Se Jacques Lacan sottolineava che il linguaggio è la condizione dell’inconscio, con Armando Verdiglione l’inconscio è la particolarità, la logica della parola. Per questo motivo, vivere secondo l’inconscio è vivere secondo la parola, la sua logica e la sua esperienza: la vita originaria è la parola originaria.
La vita originaria è la vita che non ha bisogno di quel riferimento alla morte che sta alla base non della parola, ma del discorso, segnatamente di quello occidentale. La vita come economia della morte comporta che la vita sia organizzata a partire dalla morte, a partire dalla sua fine. La vita come economia della morte diventa la morte come economia della vita, per questo, secondo la gnosi, la vita è la morte, la conoscenza della vita è la conoscenza della morte.
Come vivere, allora, senza il riferimento alla morte? Come parlare? Vivendo. Parlando. Vivendo parlando, è la vita come esperienza, senza riferimento all’essere o all’avere. Con il gerundio, le cose entrano nell’esperienza, esistono in una gestione senza possesso e padronanza, che le trae alla scrittura della vita, la bio-grafia come scrittura della vita. Biografia non nel senso di scrivere la propria vita o quella degli altri: è la vita stessa a scriversi, così diviene vita propria, vita in direzione della qualità. Così la vita è intellettuale, non convenzionale ovvero naturale.
Ma la vita non si scrive comunque, non si scrive senza sforzo, non si scrive non facendo. Facendo, la vita è assicurata, ma non contro il rischio. Facendo, il rischio è rischio d’impresa, rischio di qualità, rischio di riuscita. In questo numero, intervengono le testimonianze dei più svariati e differenti imprenditori: immobiliaristi, restauratori, arredatori, ristoratori, negozianti e altri ancora. Sono questi imprenditori, con il loro progetto e programma, con la loro scommessa e il loro rischio, a costituire la città del secondo rinascimento, la città della parola, la città della vita. Non si vive di benessere, di comfort, di relax. La vita è sicura se c’è il rischio, se la città è città dell’impresa, della finanza, dell’intelligenza, non se il cittadino è garantito, tutelato, protetto.
Parlando, vivendo, con l’impresa si producono differenti dispositivi della città. Il dibattito sorto dal libro di Zhou Qing, La sicurezza alimentare in Cina (Spirali), sottolinea l’importanza dei dispositivi alimentari e ambientali anche in occidente. Con l’era della meccanica prima e dell’informatica poi, l’agricoltura sembrava diventata marginale e i problemi alimentari superati. Ma il fantasma della carestia torna a aleggiare anche in occidente. C’è sempre una questione intellettuale: la fame non è il segno dell’umano come mortale, il pericolo di fame non toglie l’apertura, semmai la esige. E l’agricoltura, la biologia, la dietetica non sono più naturalistiche, partecipano dell’impresa, entrano nel rinascimento della parola e nella sua industria, base della salute quale istanza di qualità.
Vivendo, la città esiste nel viaggio, non nella geometria o nell’algebra contro il fare e il tempo. Le stesse case, i palazzi, il centro storico non sono immobili. Nel dibattito a proposito del libro di Lorenzo Jurina, Vivere il monumento. Conservazione e novità (Spirali), il monumento non è più fisso, identico a sé, non è il ricordo di quel che è stato fatto e che deve restare fuori dal tempo. Riprendendo il suo etimo, monumento allude alla memoria: ma, come emerge dagli interventi qui pubblicati, occorre che sia memoria dell’attuale e dell’avvenire, memoria che custodisce la pragmatica, l’impresa, la comunicazione, non che le paralizza. Memoria intellettuale, memoria della vita che si scrive in direzione della qualità. Parlando. Vivendo.