TEORIE DELLA CONOSCENZA, POLITICA E SCIENZA
Una delle considerazioni più suggestive formulate nei confronti dell’epistemologia è che essa sia sorta a partire da un’istanza di verità, che ha interessato alcuni tra gli esponenti di maggior rilievo del dibattito intorno alla scienza, nelle sue differenti discipline, e alla filosofia, nel passaggio dal diciannovesimo al ventesimo secolo: Mach, Duhem, Poincaré, Peirce, James, Dewey, Carnap, Wittgenstein, Feyerabend e altri. Verità riguardante essenzialmente l’individuazione e la definizione dei confini tra ciò che può essere definito come scienza e quanto, viceversa, va ascritto a un sapere metafisico o a opinioni ideologiche o religiose. Solamente in un secondo tempo l’epistemologia ha iniziato a costituirsi come insieme di criteri, via via sempre più strutturati e organici, per l’individuazione dei fondamenti, dei requisiti, degli obiettivi possibili di ciascuna scienza, sia di quelle cosiddette esatte, come la logica e la matematica, sia di quelle prevalentemente empiriche, come la fisica, la chimica, la biologia, fino a quelle definite scienze umane, come la sociologia, la psicologia, la pedagogia. Fino a interessare i fondamenti della tecnica e della metodologia della ricerca, rivolgendo quindi la sua attenzione, da oltre cinquant’anni, anche a discipline scientifiche di prevalente carattere applicativo, come la medicina, la farmacologia, la chimica industriale, l’ingegneria nelle sue varie specificazioni.
Se l’epistemologia, al suo sorgere, ha inteso collocarsi nell’ambito della filosofia della scienza, senza esaurirla, in seguito essa è andata sempre più configurandosi come summa di criteri da cui partire per impostare una ricerca validabile come scientifica e su cui fare fondamento per legittimarla come tale. I nomi di Schlick, Hahn, Neurath, Reichenbach, Hempel, Quine, Toulmin, Kuhn, Lakatos, Popper, sono andati via via scomparendo dal dibattito, se non in un ambito strettamente specialistico, a parte quello di quest’ultimo per una sua particolarmente accentuata propensione comunicativa e mediatica; tale scomparsa ha comportato anche un contemporaneo, rapido declino delle possibilità di discussione e di confutazione dei loro metodi. Sono rimasti questi, accettati come latori di verità assoluta in ambito scientifico dai teorici e dai conduttori delle ricerche, in modo spesso religioso, venendo meno, in tal modo, all’istanza principale per cui era sorta l’epistemologia, quella di porre in discussione, in direzione della verità della scienza, le opinioni che avessero carattere di religione. Gli autori anglosassoni hanno sempre avvertito tale rischio, insistendo per una radicalizzazione operativa dell’epistemologia, senza la quale questa tende fortemente a divenire l’ennesima gnoseologia, o un’ulteriore teoria della conoscenza o, in ultima istanza, una nuova forma di controllo del ricercare attraverso la filosofia, che è poi quanto ha quasi sempre fatto la filosofia occidentale a partire da Platone, o dal senso che è stato dato ai suoi scritti. Oggi stanno nascendo una filosofia della psicologia, una filosofia della sociologia, si sta riaffermando una filosofia della pedagogia, ponendosi come altrettante teorie della conoscenza su ciascuna di queste discipline.
A questo punto del dibattito, e in questo particolare momento storico, trovo veramente straordinario e puntuale il libro di Felice Accame La funzione ideologica delle teorie della conoscenza, edito da Spirali. Tale libro è la testimonianza e la traccia di un grande e articolato percorso di elaborazione riguardante l’analisi storica e logica delle maggiori problematiche che hanno investito il dibattito epistemologico, tuttavia con effetti innovativi, mantenendo lo stile proprio al dibattito epistemologico abituale, quello di partire dalla considerazione degli autori precedenti, come Mach, Lichtenberg, Carnap, Wittgenstein, Freud, Merleau-Ponti, Brentano, Husserl, Vailati, Calderoni, Maturana, Varela, Von Foerster fino a Bridgman, Ageno, Somenzi e, soprattutto, Ceccato.
Riguardo alla conoscenza, Felice Accame parte dalla constatazione che, fin dall’epoca classica, i filosofi hanno, con una certa costanza, denunciato una sorta di “errore” in chi li aveva preceduti, senza tuttavia superarlo mai completamente e questo errore, a ben vedere, è quasi sempre stato in rapporto con la conoscenza e con la sua pretesa di portare a verità. Dunque come l’uomo ha inteso la conoscenza, se e come i concetti hanno mai corrisposto a una realtà oggettiva, quali sono, tuttora, le modalità operative prevalenti della conoscenza e, infine, se è possibile riprodurre queste modalità nella costruzione di intelligenze artificiali.
Ma, come lascia trapelare con decisione Accame, queste considerazioni hanno attinenza anche con la politica. L’affermazione, in modo quasi sempre tragico, delle grandi ideologie del novecento, è stata anche una lotta per affermare la forza di una conoscenza sulle altre. Occorre che la battaglia sia invece sempre battaglia intellettuale, senza nemico e senza trionfo sull’Altro, come ci ricorda la cifrematica, cioè battaglia in cui la conoscenza, che fonda amico e nemico attraverso un preteso sapere sull’Altro, risulti invece apertura della parola alla narrazione e all’intendimento e tragga al dispositivo pragmatico, in cui le cose si fanno con la garanzia dell’assoluto.