LA FUNZIONE IDEOLOGICA DELLE TEORIE DELLA CONOSCENZA
Nella storia del pensiero occidentale c’è stato un errore, che io all’interno del libro La funzione ideologica delle teorie della conoscenza chiamo un’illusione sistemico-procedurale. Platone se ne rende benissimo conto già mettendo le sue parole in bocca a Socrate: non possiamo avere nessuna garanzia della copia che ci facciamo all’interno di noi di qualcosa che sta all’esterno di noi.
Oltre duemila anni dopo, Maturana e Varela, quando dicono che qualsiasi cosa sia detta a questo mondo è pur detta da qualcuno, essenzialmente minano alla base tutti i tentativi di duemilacinquecento anni di storia della filosofia di fondare in qualche maniera la conoscenza su un confronto che, in linea di principio, non è possibile. Qualsiasi persona è in grado di fare un confronto solo alla condizione di avere due cose da confrontare e due cose ugualmente presenti, oppure, che possono essere spostate nel tempo, in cui ci sono due modelli precisi da porre a confronto, quello che vede adesso e quello che ha visto prima.
Com’è possibile fare invece un confronto fra una cognita, una copia che mi faccio di qualcosa, e qualcosa che invece non è cognito, ma è incognito perché è all’esterno di me? Come posso pretendere di fare un confronto fra due cose che non ho o di cui al massimo ne ho una sola? Quello che mi spiegò Silvio Ceccato fu che questo impossibile confronto e questa disperata ricerca di fondare in qualche maniera la conoscenza sulla copia esatta furono in qualche modo coperti da un termine assassino, particolarmente malefico dato dalla metaforizzazione del verbo conoscere. Esistono due usi precisi del verbo conoscere. Da una parte c’è il conoscere come il confronto fra due elementi dislocati nel tempo, c’è una percezione in un momento e una percezione in un secondo momento. Ma, dall’altra, la metaforizzazione del verbo conoscere, quella che ha inficiato di sé tutta la storia del pensiero occidentale, non designa più una separazione di due percezioni in due momenti, ma è quella che divide i due risultati della percezione in due posti, come quando l’epistemologo, o il teorico della conoscenza, come qualsiasi altro stregone al servizio del potere, ci dicono che una cosa fuori di noi è uguale a quella che è dentro di noi, e lui ha gli strumenti per potere garantirla. Quali? Lo sa Dio quali. E su questa constatazione riposa essenzialmente tutta la storia dell’epistemologia.
Molti filosofi, da Platone a Hume a Berkeley, hanno denunciato questa illusione. Nel mio libro racconto perché questa denuncia non è stata accolta da nessuno, o meglio, anche laddove sia stata accolta, in effetti nulla è cambiato. L’unica risposta che mi è data è il fatto che quel tipo di sapere in definitiva fa comodo a qualcuno, fa comodo all’assetto del mondo.
Non è difficile scoprire che chi sta in alto in effetti ha tutta la convenienza di poter garantire, a chi sta in basso, come stanno effettivamente le cose, per cui il potere e il suo stare in alto, la sua sovragerarchizzazione è giustificata in qualche maniera o da Dio o dalla storia o dalla natura, che sono poi le solite tre cose tirate in ballo a giustificare chicchessia. Ma allora emerge un’ulteriore questione: visto che questo stato di cose faceva comodo soltanto a qualcuno nella storia dell’umanità e non alla maggior parte, come mai coloro che in qualche modo hanno cercato di consapevolizzare della necessità di un’opposizione a questo stato di cose in definitiva non hanno fatto granché? Anzi, forse hanno fatto quasi peggio degli altri, perché quando sono andato a perlustrare tutte le teorie epistemologiche delle teorie anarchiste e le teorie epistemologiche del dibattito, per esempio, all’interno dei movimenti rivoluzionari ne sono rimasto costernato: da tutte queste cose il dato di fatto realistico e l’osservanza piena subordinata nei confronti del potere della scienza non sono mai stati messi in discussione. La scienza è sempre stata considerata qualcosa di assolutamente neutrale, di assolutamente al di sopra delle parti, per cui a un certo momento si trattava semplicemente, come ahimé è accaduto, di far sì che coloro che erano una classe di opposizione si proponessero come nuova classe dirigente al posto di quell’altra.
Eppure, mantenere questo stato di cose voleva anche dire rinunciare a un oggetto di analisi fondamentale per l’esistenza umana. Se si mantiene valido il paradigma realistico, praticamente la mente umana e il linguaggio sono oggetti completamente estraniati, estromessi dalla ricerca scientifica. Per poter impostare un rapporto fra linguaggio e pensiero basato sul fatto, sulle operazioni e sull’operare, basato su un modello dell’operare mentale, bisognava liberarsi innanzi tutto di quell’idea della mente come collezione di entità statiche che derivava direttamente dal fatto che la mente dovesse rispecchiare un mondo già bell’e fatto.
Questo è stato l’ultimo gradino, quello in cui ho avuto la fortuna di seguire per trent’anni, dal 1964 al 1997, quando è morto, quello che è stato il mio maestro, Silvio Ceccato, con tutta la scuola operativa, da Vittorio Somenzi a Giuseppe Vaccarino.
Noi operiamo in maniera diversa dal realismo o dall’idealismo della conoscenza. Ma di questa operatività ce ne occupiamo soltanto quando i nostri impegni precisi materiali vanno in crisi. Perché l’assunzione del punto di vista operativo, di cui parlo nel libro, non è un’ontologia a sua volta e non pretende che tutto sia essenzialmente per forza da analizzare in termini di operazioni. Rimane la consapevolezza che, qualsiasi cosa io dica di avere visto, faccio delle operazioni per poter dire di averla vista e per potere predicarla in quel modo, e posso parlare sicuramente soltanto di queste operazioni, non delle operazioni altrui né tanto meno di come sia o come non sia, indipendentemente dalle mie operazioni, quella cosa di cui stiamo parlando. Se io so che questo è un punto di vista e so quindi che posso assumerlo o no nei confronti di determinati tipi di cose, io non compio una nuova ontologia per riproporre essenzialmente una nuova forma di filosofia legata al fatto che si deve per forza pensare in operazioni e ricondurre il tutto in operazioni. Dico che, in determinate circostanze e laddove la scienza e l’indagine scientifica trovano un ostacolo insormontabile, probabilmente su determinati oggetti, come quello dell’attività mentale e del rapporto fra attività mentale e linguaggio, sarebbe opportuno tentare una nuova strada, rinunciare agli atteggiamenti dettati da punti di vista che procedono dal realismo e dall’idealismo per provare ad assumere un punto di vista operativo.
Nel momento in cui noi aumentiamo la consapevolezza del nostro operare, aumentiamo, io credo, i nostri gradi di libertà. Se non arrivo a questo stadio, il problema non me lo pongo e il linguaggio continua a fare la sua funzione etichettatrice e quindi asseveratrice di una situazione di realtà, di un qualche cosa che rassicura, rimane totalmente consolidata al suo posto, mai messa in discussione e con ciò l’attività mentale, quello che è il contributo dell’operare costitutivo dell’individuo, ci viene completamente dimenticata e ci viene espropriata. L’espropriazione di ciò è particolarmente grave quando non solo concerne gli elementi determinanti della nostra vita pratica, ma diventa gravissima quando concerne il mondo dei valori, perché alla stessa stregua in cui ci viene imposta una realtà precostituita, indipendente da noi, con lo stesso meccanismo retorico ci viene imposto un mondo di valori, nel quale noi dobbiamo semplicemente in qualche maniera assoggettarci, in qualche maniera obbedire. Veniamo espropriati anche di quelli che sono i criteri guida relativi al nostro comportamento e ai nostri rapporti sociali, e questo è particolarmente grave.
Forse, valutando la gravità di tutto ciò, si capisce perché offro un determinato tipo di risposte all’interno del libro, laddove mi proviene tutta la disperata amarezza di una constatazione che in qualche maniera non può trovare soluzione. Non l’ha trovato nei grandi movimenti di opposizione nel mondo. Dove dovrebbe trovarlo? In coloro a cui in fin dei conti le cose vanno bene così come stanno? Sarà molto difficile che possa venire messa in crisi da questa parte. È per questo che la situazione la vedo veramente senza scampo per certi versi.