MEDICINA E BRAINWORKING
Medicina e humanitas. Aritmetica e cifratica della vita è il titolo del congresso internazionale che si
terrà nei giorni 28, 29 e 30 novembre 2003 alla Villa San Carlo Borromeo di
Senago (Milano), con l’intervento di medici, scienziati, psicanalisti,
filosofi, poeti, scrittori e ricercatori di varie città del pianeta.
Promuovere il
dibattito intorno alla medicina risulta tanto più urgente quanto più, man mano
che essa sembra ottenere risultati straordinari, sempre più viene
chiamata in causa la sua etica. Ci si chiede quanto il medico sia “umano”,
oltre che competente e preparato. E, tuttavia, quale imprenditore,
professionista, insegnante – che pure è presunto trovarsi in uno statuto di
direzione nel proprio lavoro – non è pronto a delegare al medico qualsiasi
questione inerente alla propria salute? Anche perché avverte che la cura non è
soltanto la guarigione dalla malattia, dunque, cerca una salute che sia istanza
di qualità della vita, più che benessere.
Ma, chi si affida
al medico come se fosse depositario di un potere magico non fa che applicare il
luogo comune più diffuso da Platone in poi, ossia la credenza che la verità di
ciò che è presunto visibile (il corpo) stia nel mondo presunto invisibile delle
idee (la scena). Il medico, cosciente dell’esistenza di tale doppia realtà,
dovrebbe portare il paziente a riconoscerla – come indicherebbero i detti
“ognuno è medico di se stesso”, o “non c’è medico migliore del paziente” –, in
modo che, insieme, possano pervenire alla verità. La verità, quindi, sarebbe
qualcosa da riconoscere, qualcosa che ognuno sa ma non sa di sapere, ha
dimenticato di sapere. Ma, quale sarebbe in fondo la verità ultima dell’uomo,
quella che il medico, alla fine, si chiede se dire o non dire al paziente? Se
Platone aveva lasciato qualche dubbio, Aristotele ci è venuto incontro
lapidario: l’essere dell’uomo è mortale. Il medico che applicasse, con il
proprio paziente, il luogo comune del discorso occidentale non avrebbe altro
compito che accompagnare ognuno nel modo migliore verso la morte. Oggi, sempre
più spesso, si sente la formula che meglio giustifica l’eutanasia: “Se non
posso aiutarlo a vivere, lo aiuto a morire”. Ma come può l’uomo, in quanto
essere mortale, avere la libertà di vivere o di morire? L’uomo essere mortale è
già votato all’eutanasia. L’unica libertà che resterebbe a tale uomo sarebbe
quella di decidere quando e come morire, tutto il resto sarebbe prestabilito. E
malato terminale non sarebbe soltanto chi è stato diagnosticato come
incurabile, ma ognuno, ognuno che, senza progetto e senza programma di vita, si
nutrisse del luogo comune imperante in ogni ambito della società, oltre che
nella medicina.
I luoghi comuni
della medicina, infatti, si ritrovano nei luoghi comuni della finanza o del
diritto. Partendo dalla credenza che esista una verità da scoprire, quale
professione non prospera sull’accanimento da una parte e sulla minaccia
dall’altra? Minaccia di morte, minaccia di prigione, minacce da cui il
professionista di turno potrebbe mettere in salvo l’assistito. E i luoghi
comuni che la medicina applicava al corpo, oggi sempre più, sono applicati
all’impresa: troppo spesso si sente dire che la tale impresa è malata, che ci
sono rami secchi da tagliare e mele marce da buttare, interventi chirurgici o
farmacologici da compiere perché possa guarire. Il corpo, interrogato, deve
giungere a dire la verità e la verità è che le aziende come gli essere umani,
“nascono, crescono e muoiono”. L’intervento migliore sarebbe dunque quello che
meglio riuscisse a sapere in quale fase del ciclo di vita si troverebbe il
malato, che, affidandosi al medico, dovrebbe collaborare, accettare la terapia
come necessaria al proprio bene – bene che poi consisterebbe nella rinnovata
capacità di accettare il proprio presunto essere mortale. Ma malattia invece,
dal latino male aptus, vuol
dire “non adattamento”. Eppure, il sintomo, che interviene per indicare un non
adattamento, nel discorso occidentale viene convertito nel segno di una
patologia. Anziché indagare le ragioni del non adattamento, quindi, ci si
attarda nella ricerca di una patologia come causa del sintomo. E siamo ancora
alla credenza nel corpo visibile come tavola per scoprire la verità del mondo
invisibile delle idee che presiedono alla nostra esistenza.
Eppure, ancora
prima della psicanalisi – che constata che il corpo e la scena sono nella
parola, né visibili, né segreti –, chi potrebbe ignorare l’apporto del
cristianesimo nel testo occidentale? Nell’atto di Cristo neppure il corpo è
mortale. Con l’atto di Cristo nessuno può più essere esente dallo statuto
intellettuale, ossia, nessuno può delegare l’autorità e la responsabilità del
proprio itinerario. Ci accorgiamo che qualcosa non va e qualcosa non funziona,
nella famiglia, nella scuola, nell’impresa? Interpelliamo i tecnici, ma per
instaurare con ciascuno un dispositivo intellettuale, in direzione della
qualità, non per chiedere l’intervento salvifico, la soluzione del deus ex
machina. Si tratta di trovare il
modo non perché tutto vada e tutto funzioni, ma perché, anche in seguito a una
cosiddetta malattia incurabile, o a una grave crisi dell’impresa, il progetto e
il programma di vita non solo non vengano meno ma incontrino un rilancio. Chi
si ponesse in uno statuto sociale o professionale – ossia volesse dimostrare di
saperla lunga sul presunto male dell’Altro – si limiterebbe a confermare il
fantasma di padronanza sul corpo e sulle cose che da sempre contraddistingue il
discorso occidentale. L’atto di Cristo, invece, mette in questione proprio la
presunzione di conoscenza, presunzione su cui si basa ogni confessione, prima
ancora che ogni professione. Il corpo non muore, quindi, gli umani non vanno
verso la scena del male. Le cose non finiscono. Solo partendo dall’idea della
fine, la medicina – e, accanto a essa, la psicologia, il comportamentismo, la
sociologia, lo sperimentalismo – potrebbe proporre la terapia come variabile di
un cammino segnato verso la morte. La stessa idea hegeliana di evoluzione e
progresso – per esempio, di un malato verso la guarigione o di un’azienda verso
la ripresa – è debitrice dell’idea di tempo come durata, quindi, come linea,
con un inizio e una fine, su cui è basato il discorso occidentale. Solo
partendo dal riferimento alla morte, il viaggio della vita sarebbe circolare,
all’insegna del ciclo naturale dell’esistenza, in cui le cose “nascono,
crescono e muoiono”. E allora la terapia servirebbe al riscatto: chi è malato?
Chi non si adatta all’essere della morte. Chi è sano? Chi ha imparato l’arte di
vivere, ossia chi da schiavo è diventato padrone, padrone di morire, o padrone
di dire la verità sulla morte.
Ma qual è
l’intervento oggi che intende la terapia come variazione costante del viaggio,
anziché come alternativa prescritta, come finalità – come fa per esempio, la
ludoterapia o, addirittura la musicoterapia, che considera il gioco non come
aspetto dell’itinerario, accanto all’invenzione, ma come tecnica per guarire,
per liberarsi dal male? L’intervento del brainworker, nella medicina, nella
famiglia, nell’impresa, mira a instaurare un’altra terapia, una terapia come
vicenda della gloria. Per questo non ha il male dinanzi, non cerca di
restituire la salute ripristinando lo stato preesistente al presunto intervento
del male, non cerca di far quadrare i conti. La restituzione cui punta il
brainworker, statuto intellettuale, non sociale o professionale, è la
restituzione in cifra. Sembra paradossale, ma, come constata nei suoi scritti
Armando Verdiglione, il sintomo è terapeuta, non ha nulla di negativo, è una
risorsa della parola. Come eliminare il sintomo, quindi, senza privarsi
di una risorsa insostituibile per la salute come istanza di cifra, istanza di
qualità della vita? L’intervento del brainworker è l’intervento in direzione
della qualità, quindi, l’intervento in cui importa la restituzione in cifra,
importa che la memoria, lungo il racconto – che si fa di sogno e di
dimenticanza –, si scriva. Nella battaglia costante di ciascuna giornata non
importa quanti rami secchi sono da tagliare, quante mele marce sono da buttare
o se le vacche grasse seguiranno a quelle magre, ma come ciascuna cosa entra
nella memoria in atto e contribuisce alla sua scrittura.
Le cose vengono dal corpo
immortale e vanno verso la scena non sacrificale. Dalla combinazione di corpo e
scena nella parola la cifra, quindi, la salute. Per questo, la medicina della
parola non può prescindere dal ritmo del viaggio intellettuale, in cui la
cultura e l’arte, la macchina e la tecnica, l’invenzione e il gioco, la
formazione e la terapia, il percorso e il cammino sono costanti e
contribuiscono alla civiltà – civiltà senza progresso, regresso, evoluzione e
involuzione –, alla civiltà in cui l’humanitas si basa sul diritto dell’Altro e le sue virtù:
l’umiltà, la generosità e l’indulgenza. Virtù che ciascuno incontra facendo e
concludendo, senza deleghe, rimandi o remore. Di queste virtù auspichiamo si
nutra sempre più la medicina instaurando il cervello della vita.