LA QUALIFICAZIONE DELLA CITTÀ
Per introdurre il dibattito intorno al libro di Sergio Mattia, L’ambiente, la città, i valori, vorrei fare un’osservazione: la città troppo spesso tende ad essere considerata, sopra tutto dagli architetti, in termini un po’ meccanici, cioè come un insieme di spazi organizzati. Secondo questa impostazione governo del territorio significherebbe dire: qui costruiamo le case, qui facciamo le strade, qui mettiamo i servizi, qui gli ipermercati e poi qui mettiamo la ferrovia che collega tutto. Programmare una città, come operazione marcatamente urbanistico territoriale, spesso è un’operazione veramente arida, da ufficiale dell’esercito più che da urbanisti, come se si potesse dividere il territorio in zone. Io sono più affezionato all’idea che la città sia, prima di tutto, un insieme vivente di relazioni tra persone, e che soltanto così si possano trovare delle risposte. Per esempio, Bologna nel 1973 ha incominciato a perdere abitanti in modo consistente. Oggi ha 373.000 abitanti, ne aveva 480.000. È successo un improvviso e drammatico calo delle nascite: nel 1973 sono nati 5200 bambini e nel 1974 ne sono nati 2000. Si ha un bel da dire che adesso c’è una ripresa, ma la ripresa è da 2000 a 2500, cioè lo standard degli ultimi trent’anni è uno standard in cui il numero dei nati è la metà di quello che avevamo in precedenza. Ora, un fenomeno del genere richiede riflessioni consistenti sul suo significato sociale: nell’analisi specifica di una città questo tracollo equivale a una sorta di malattia mortale.
Allora, se ci si chiede oggi che cosa possiamo fare nel governo del territorio per invertire questa tendenza, come può agire una amministrazione pubblica, prima di dire di quante case abbiamo bisogno, dobbiamo stabilire tra quindici anni quanti abitanti avrà Bologna. Se non chiariamo qual è la tendenza, come possiamo dire che ci vogliono settemila case? E non basta neppure dire: “Dobbiamo in cinque anni arrivare a mezzo milione di abitanti”: soltanto con una deportazione in massa si può raggiungere questo obiettivo! Che cosa si può fare sostanzialmente per agire sul tema? Politiche di sostegno all’incentivazione delle nascite, all’aumento dell’età media di vita, all’aumento dell’immigrazione, a scoraggiare le emigrazioni. Studiamo questi quattro capitoli e troviamo la ricetta possibile. Per altro, non è vero che il calo di abitanti è dovuto principalmente alla fuga dalla città, la fuga dalla città a Bologna è assolutamente negli standard, è normale che, raggiunto un certo livello, la gente preferisca vivere nei paesi contigui, dove c’è più verde, c’è la possibilità di accesso, è una tendenza costante della civiltà moderna. Ho voluto fare questo esempio per dire come il governo del territorio è davvero una filosofia, non una tecnica, non è un mettere in campo provvedimenti, varianti, attrezzature urbanistiche, ci vuole una capacità di capire le aspirazioni, la fiducia, le sfiducie, le passioni di una città.
La seconda osservazione riguarda la parte del libro di Sergio Mattia in cui c’è il tentativo di riscrivere le leggi del governo del territorio. Schematizzando, sintetizzerei così il problema: in materia urbanistica il liberismo selvaggio non è proponibile. È un mito l’idea che il laisser faire possa essere la parola d’ordine in questo campo, ci sarebbe indubbiamente una confusione, una devastazione del territorio. La mitologia opposta, che ha segnato tutta la storia dell’urbanistica, è quella di poter dirigere lo sviluppo del territorio con scelte esclusivamente dell’autorità politica. Esattamente il contrario della prima. Le politiche dei piani, la pianificazione è fallita dappertutto, il sistema delle pianificazioni è stato abolito e l’unico campo in cui gode ancora di una notevole nobiltà è quello dell’urbanistica. Ora, la Regione Emilia Romagna ha abolito i piani regolatori ma li ha sostituiti subito con altri due: il piano strutturale e il piano operativo. Ho sfogliato il manuale di urbanistica di Mengoli e ho visto almeno 25 o 30 piani. Ma la pianificazione, il postulato sovietico non funziona. Io credo che dobbiamo reinventare una legge urbanistica che, senza rinunciare al governo pubblico del territorio, senza cadere nel liberismo, possa in qualche modo avere efficacia. Allora, ecco l’urbanistica concertata, concertata vuol dire che la decisione sul destino di un’area non può essere né affidata al proprietario – liberismo selvaggio –, né affidata ai poteri del comune – autoritarismo burocratico –, ma concertata. Bisogna stabilire le regole della concertazione, ci vuole un ottimo direttore di orchestra, degli esecutori e un insieme di norme che partono dai soggetti attivi di questa operazione. La proposta di legge, che abbiamo messo in piedi come Società Libera e che si deve in larga parte al contributo di Sergio Mattia, individua una procedura nella quale si definiscono non tutte le varianti strategiche del territorio, ma essenzialmente le politiche di riqualificazione. Usando una metafora propria della medicina, se c’è da guarire una malattia, è inutile che pensiamo di rifare tutto, ci vuole una terapia specifica, mirata a quel tipo di malattia. Allora, se le nostre città oggi vivono in condizioni di degrado, è inutile che progettiamo espansioni territoriali fuori misura, non realistiche, se il problema è di evitare il tracollo urbanistico abbiamo una sola parola d’ordine che è riqualificare: fabbriche dismesse, zone degradate, edilizia mediocre, amianto sulle abitazioni, riqualificare, le azioni di riqualificazioni devono trovare una procedura concorsuale, individuando i comparti, le regole, i costi e i benefici.
È un tema molto interessante e il libro offre una ricca documentazione di questa strada, che è un po’ tecnica, può sembrare un po’ arida, ma tenta di giocare questa sfida, se il buon governo del territorio può nascere da una cooperazione tra i diversi soggetti che vi sono interessati, oppure se ci si debba arrendere o al liberismo selvaggio del proprietario o all’autoritarismo delle scelte politiche.