L'UOMO VIVE NELL'ESILIO
Quando ho avuto tra le mani il libro di John Bloch, Dio e la poesia (Spirali), ho pensato che ci fosse, nel frontespizio, un errore di stampa. Forse si erano dimenticati l’accento, dato che il titolo doveva essere Dio è la poesia. Poi mi sono accorto che i due titoli si equivalgono: Dio è nella poesia, solo che Dio è la poesia e la poesia è Dio: non già nel senso della coincidenza dei due termini, ma di una presenza di Dio nella poesia. E insieme di un’assenza di Dio, che testimonia la sua presenza come cifra e come nostalgia. Nel 1970 pubblicai la mia filosofia della religione, intitolata Dio senza Dio (Japadre). Quel titolo intendeva dire che Dio non può mai esserci, perché è l’assoluta alterità e ogni volta che crediamo di catturare Dio in realtà catturiamo un non-Dio. Come quando pretendiamo di dimostrarne l’esistenza: Rilke ha scritto che “cercare” (suchen) Dio significa “tentare” Dio (versuchen).
Ecco perché tutte le religioni hanno ritenuto che la teologia negativa (che parla di Dio attraverso la negazione) sia superiore rispetto a quella positiva (che definisce gli attributi di Dio). Le due teologie non si escludono, la loro sintesi è appunto “Dio senza Dio”. Il Dio delle religioni è tanto più Dio quanto più è un Dio senza Dio, ossia viene vissuto dal fedele come il “Totalmente Altro”, come il Ganz Andere di cui parlava Rudolph Otto. Come il Sacro, qualitativamente diverso dal profano: in ebraico quadosh, che significa “separato”. Ma la sua alterità non significa mancanza: Dio non c’è anche quando c’è, come nell’esperienza religiosa. E c’è anche quando non c’è, come nella negazione dell’ateo, che è una negazione religiosa: si nega solo ciò che esiste, anche se riusciamo a sentirlo solo come mancanza. Nella tradizione biblica il “Dio senza Dio” si rivela nella storia, ma rimane senza viso e senza nome: “Dimmi chi sei” gli chiede Mosè, ma Dio gli risponde “Io sono colui che sono”, cioè non gli risponde affatto. Nel cristianesimo Dio s’incarna in Cristo, visibile perché uomo; ma Dio padre rimane un “Dio senza Dio”, come è chiaro da due altissime preghiere. La preghiera di Gesù comincia con “Padre nostro, che sei nei cieli” – una vicinanza (“nostro”), che non esclude la lontananza (“nei cieli”). Anche la prima poesia italiana, il Cantico delle creature di san Francesco, mescolando il mysterium fascinans, ci parla di un “Dio senza Dio”: “Altissimo, onnipotente, bon signore”.
Il libro di Bloch è la dimostrazione che nella poesia c’è sempre un Dio senza Dio. Bloch si riferisce ad alcuni poeti, che non chiamerò religiosi, perché tutti i poeti lo sono (alcuni hanno la religione del Dio presente, altri la religione del Dio assente). Egli si serve di alcune poesie, che più di altre testimoniano la sua tesi.
Fra i poeti espressamente religiosi è Mario Luzi. Giunto a novant’anni, ha attraversato tutte le stagioni poetiche del secolo appena trascorso. Non ha potuto vincere il Nobel, che doveva essere assegnato a Dario Fo. Certo, oggi è il più grande poeta italiano vivente. Senza averne la pesantezza, la poesia di Luzi è teologica. Nella migliore tradizione ebraico-cristiana egli ci parla di un Dio come Essere immutabile ed eterno. Ma è anche un Dio vivente, non è il “Motore immobile” di Aristotele, è, come scrive Bloch, “un Dio eternamente intero, inconsumato e uguale a Sé, seppure eternamente diveniente altro da Sé”. La poesia di Luzi s’intitola Ispezione celeste.
Se Luzi è il poeta di Dio, Eugenio Montale è il poeta della mancanza di Dio, delle macerie e dei rottami, della lordura e delle rovine. Eppure, mancanza non significa inesistenza. In questa poesia contenuta in Ossi di seppia, intitolata dal primo verso Antico, sono ubriacato dalla voce, il mare è la metafora del Dio invocato. Ma non è un Dio in cui trovarsi, è un Dio in cui perdersi. Poesia gnostica, quella di Montale: Dio non è il creatore, dato che il mondo è male, “Spesso il male di vivere ho incontrato”. Le cose create non sono, come nel racconto del Genesi, “valde, valde, bona”. La salvezza consiste dunque nel rifiutare la creazione. Compito della poesia, scrive Bloch, diviene dunque la “de-creazione” del mondo e anche di Dio.
Infine, una poesia di Carlo Betocchi. Essa ruota attorno a un’immagine assai presente nelle religioni: quella del tetto, così ben studiata da Mircea Eliade. Delle tre dimensioni cosmiche della casa, il tetto è difesa e protezione, ma anche apertura verso Dio (nello stesso senso per cui la cantina conduce agli inferi e le stanze albergano il mondo terreno). Betocchi, nato a Torino ma vissuto a lungo a Firenze, è stato il poeta dei tetti. E Tetti toscani s’intitola una sezione delle sue Poesie. Il tetto è il silenzio che ode la voce di Dio, che si fa parola solo per rimanere in silenzio: un “Dio senza Dio”, dunque. Il tetto è il modello del poeta, i cui versi esprimono sopra tutto la mancanza, rimandano al ciò che si trova “al di là”.
Ho cercato di esprimere alcuni concetti del libro di Bloch. Esso offre molto di più, ma mi sono riferito soltanto a queste tre poesie come stimolo per entrare nella sua problematica. Una problematica che si radica nella polivalente tradizione ebraica. Ciò che ho cercato d’indicare, con queste letture e con i commenti a esse, è il carattere necessariamente religioso di ogni poesia autentica. Il poeta sa che l’uomo vive nell’esilio e nella mancanza, sa di essere, per dirla con Pascal, un “re spodestato”. Sa di vivere, per riferirci al tema prevalente della poesia contemporanea, in un esilio fuori della patria, vuole lasciarsi alle spalle, ci dice Eliot, il tempo “corrotto” della “terra desolata”, per raggiungere ciò che Ungaretti, autore di La terra promessa, chiama “paese innocente” e Montale “paese incorrotto”. Bloch indica le quattro tappe che più volte i poeti hanno evocato, come ci mostra la sua opera, la cui problematica essenziale, fondata su una vasta conoscenza della cultura ebraico-cristiana, può essere riassunta con le parole del suo Autore: “il valore assiologico ed etico che le ortodossie ebraica e cristiana ascrivono al procedimento di creazione poetica”.