LA RAGIONE DELL'IMPRENDITORE
Tutti i giorni sono abituato a trattare argomenti di estrema tecnicità e freddezza: nella mia azienda si parla di titanio, di saldatura, di anti-corrosione, di radiografie e radioscopie di antenne che vanno su satelliti e questo genere di cose. Quando sono stato invitato a intervenire a questa conferenza di Carlo Sini mi sono sentito molto a disagio, trovo il mondo della filosofia estremamente lontano dalla mia realtà. Pertanto, all’inizio, ho pensato di disertare l’avvenimento. Poi però ho riflettuto: chissà che forse, proprio da questa lontananza dalla materia, non possiamo trarre spunto per affrontare i temi di questa conferenza La libertà, la finanza, la comunicazione, dall’angolatura differente della mia piccola esperienza di imprenditore, oltre che da quella filosofica. Guido un’azienda di venticinque persone, delle quali dodici sono laureate e tredici diplomate con attestati a livello internazionale.
Quando ho letto la parola libertà, la prima cosa che mi è venuta in mente è stata il senso di libertà che ho provato il giorno in cui ho deciso di fondare la mia piccola impresa. Questa è libertà: essere imprenditore è poter esprimere qualcosa di se stessi che non si ha modo di esprimere diversamente. Non credo che sia poi, in realtà, così diverso dall’attività del pittore, dello scrittore o di qualsiasi altro mestiere o arte che porta qualcuno a esprimere se stesso. Per me, il primo senso di libertà è stato questo.
La finanza è imprescindibile nell’impresa; non la finanza dei titoli azionari o quella della borsa, ma la finanza spicciola, quella dello stesso giorno in cui una persona decide di avviare un’impresa: dove trovare i capitali, come garantirli, come remunerarli, come fare tutti i giorni una gestione finanziaria di tesoreria della propria impresa, gestione che può garantire il proseguimento, l’implemento, la crescita dell’impresa o, se fatta male, portare al suo decadimento. Quindi, la finanza è in questa visione pragmatica dell’impresa.
E veniamo alla comunicazione. Prima pensavo che nel fare impresa la comunicazione fosse una questione per addetti al marketing e poi invece mi sono accorto che non è vero perché l’impresa – nonostante tante imprese della nostra provincia nascano dal saper fare – presto fa un passaggio al saper dire. Il saper fare per noi è stato importantissimo: il saper fare le prove, il saper fare le analisi. Per alcuni imprenditori, saper tornire un pezzo è stato indispensabile per poi far nascere un’impresa che è cresciuta enormemente. Mi viene in mente un passaggio del libro di Guido Gabrietti, deceduto pochi mesi fa, che è stato il fondatore, assieme ad altri undici operai, della Società Bilanciai di Campogalliano, che poi nel tempo si è evoluta diventando quella che oggi è la Società Cooperativa Bilanciai. Gabrietti dice in un passo del suo libro: “In tanti lavoravamo alle bilance, pochissimi eravamo bilanciai”. Quindi, questo saper fare è creare impresa. Ma appena l’hai creata ti accorgi che forse c’è qualcuno fra i tuoi collaboratori che sa fare meglio di te. Allora, l’impresa cresce e tu devi saper dire, devi saper comunicare. La prima esigenza di comunicare è quella verso l’esterno: comunico che so fare, cerco mercato. Poi, c’è un’altra comunicazione, che nasce immediatamente dopo ed è quella interna all’impresa, perché quando gestisci, quando collabori con il personale, soprattutto se è altamente formato, devi motivarlo, non ci sono argomentazioni economiche che possano trattenerlo nell’azienda. Quindi, devi sapere comunicare la motivazione, sapere comunicare i tuoi valori, la tua visione, la tua missione aziendale. Ecco come siamo passati dal fare al dire, contrariamente al luogo comune, “Tra il dire e il fare c’è di mezzo il mare”, che vorrebbe sminuire il dire. Invece, vediamo quanto è importante il dire, vediamo tutte le difficoltà che comporta la comunicazione interna all’azienda. Poi c’è la comunicazione degli altri, per dir così. Oggi i mezzi di comunicazione sono tantissimi, ma, a volte, mi pare che la comunicazione degli altri, la comunicazione dei governi nazionali e locali, la comunicazione delle associazioni imprenditoriali, sia una comunicazione che può tendere a ledere la libertà dell’impresa. Mi sembra che – contrariamente alla comunicazione all’interno delle imprese e a quella tra imprese, dove non è mai solo un dire ma è anche un ascoltare cosa dice l’altro e modificare le proprie idee – l’ascolto venga a mancare completamente quando la comunicazione ci viene dall’alto. Sembra che una determinata cosa detta da un’associazione o dal governo debba necessariamente essere vera e tracciare una strada per tutti noi, per tutte le imprese. Un esempio che mi sta molto a cuore è la comunicazione su ricerca, sviluppo e innovazione. Da anni veniamo martellati con questa comunicazione, ma siamo ancora al dire, mentre del passaggio al fare ancora non si è visto molto. Ma credo che il difetto di questa comunicazione sia di non coinvolgere assolutamente gli imprenditori, se non nella promessa di uno sgravio fiscale o di un contributo a fondo perduto. Non c’è in questa comunicazione un andare a cercare, a solleticare, quella che è la ragione dell’imprenditore nel fare impresa. E, mi chiedo, come possiamo noi, piccoli imprenditori – adesso sono anche contento di dire piccolo perché in Unione Industriali più del cinquanta per cento delle imprese hanno meno di cinquanta dipendenti – interagire con questa comunicazione? Quali possibilità abbiamo di far sentire la nostra voce e di poter ragionare in modo indipendente, quindi, di valorizzare l’informazione e la comunicazione che riceviamo, senza darla per scontata perché viene da qualcuno che sta in alto?