NUOVE PROPOSTE PER I DISTRETTI DEL MADE IN ITALY
Nel 2007 il surplus commerciale proveniente dai settori delle quattro A – abbigliamento, arredamento, alimentare e automazione industriale – è stato di circa 113 miliardi di euro, un contributo significativo alla bilancia commerciale del nostro paese. Oggi si addensano nubi più fosche, ma è in questi momenti che si fa la differenza. Grazie all’opportunità che mi ha dato il Ministero per lo Sviluppo Economico di seguire il progetto Industria 2015 (in particolare, sul tema Innovazione industriale per le nuove tecnologie del made in Italy), ho incontrato circa cinquecento imprenditori italiani e ho potuto constatare che si profila un modello di business caratterizzante il made in Italy. Se fino a ieri sembrava solo un’etichetta, privata ormai del suo significato primario, l’attività di tante medie e piccole imprese ha reso il made in Italy un vero e proprio modello, a cui manca però una codificazione. È questa la sfida da portare avanti, perché le nostre aziende siano maggiormente apprezzate dagli investitori internazionali.
Non bisogna dimenticare inoltre che, mentre in passato concepivamo il mondo come un grande triangolo, la cui parte alta rappresentava il mercato di altissima fascia, oggi, con la globalizzazione, il mondo è diventato più simile a una clessidra, che comprende nuovi mercati e milioni di persone con un’elevata capacità di reddito: la punta del triangolo è ora molto più grande e il made in Italy deve rientrarci a tutto tondo; allo stesso modo, la parte bassa è diventata un grande contenitore, che comprende i commodity.
E ora vorrei fare alcune considerazioni che scaturiscono dal nostro modo di essere: il concetto del bello nel prodotto, nato con le nostre aziende, e quello della paura, che spesso presiede alle nostre azioni. Diverse imprese italiane di design hanno fatto scuola per anni, ma poi sono entrate in crisi, perché evidentemente il design non bastava. Oggi, inoltre, la paura è un elemento determinante, nei mercati così come nella vita: è quella che ci fa essere connessi ventiquattro ore al giorno con il Blackberry e il telefonino, grandi comodità, ma che d’altra parte denunciano forse un’incapacità di combattere e di reagire in prima persona alle minacce e alle novità. Il made in Italy può rappresentare un’alternativa importante, con il suo concetto di convivialità, di condivisione e di responsabilità sociale, punti fermi da cui partire sia nell’organizzazione aziendale, sia nella comunicazione di ciò che facciamo. Occorre un richiamo all’Italian lifestyle, che gli altri paesi c’invidiano, insieme al fatto di essere per alcuni versi mediatori e per altri creativi e quindi di riuscire a realizzare forme, tecnologie e prodotti assolutamente differenti dagli altri.
Un altro punto fondamentale che vorrei sottolineare è il territorio, il fatto che solo in determinate zone nascano, per una serie di combinazioni, alcune competenze specifiche, da quelle scientifiche, come la meccanica, a quelle che riguardano la produzione delle piastrelle, come a Sassuolo, o ancora delle porcellane e delle ceramiche in diverse regioni italiane. Il distretto è la combinazione di diversi valori, di cui bisogna essere consapevoli per diventarne promotori: un bel prodotto di design possono farlo in tanti, ma un prodotto che vada oltre, che comunichi sensazioni e qualità sociale, possiamo farlo solo noi. A questo proposito, è sempre più importante che le imprese lavorino per affermare i temi delle libertà personali, in un’organizzazione aziendale aperta, in cui si possano scambiare le esperienze, creando valore e comunicandolo. Questo ci renderebbe differenti, originali e unici rispetto ai produttori del resto del mondo. La qualità sociale, che si traduce nella peculiarità di fornire un servizio di alto livello, nell’immagine proiettata dell’impresa, e che porta alla fiducia e alla fedeltà del cliente, ha chiaramente una parte essenziale nel nostro modo di operare.
Il lavoro, che in Italia ha un costo molto alto, è un altro elemento di valore imprescindibile, che a Sassuolo è stato affrontato attraverso l’automazione industriale, mentre altre aree hanno puntato sulla rivalutazione del ruolo degli operai, altro valore fondamentale.
Un altro fattore importante che contribuisce al valore di un distretto è la coesione: anche se l’imprenditore spesso prende le decisioni in solitudine, dovrebbe cercare un confronto con gli altri concorrenti, per trovare un terreno comune, per esempio nella logistica, al fine di far migliorare tutte le aziende di un distretto e creare un punto di partenza da cui competere come territorio, anche se ciascuna azienda con la propria specificità. È ciò che sono riuscite a fare, per esempio, le rubinetterie delle province di Brescia, Novara e Vercelli, costituendo il Consorzio Ruvaris per risolvere attraverso le nanotecnologie il problema della migrazione del piombo nell’acqua. Soltanto creando delle reti e spostando le tecnologie da alcuni comparti verso alcuni prodotti, anche i più comuni, si può vincere la sfida. Tutto ciò è possibile, in quanto nei prodotti di aziende eccellenti c’è molta tecnologia, anche se questo viene comunicato in modo marginale. Non bisogna invece dimenticare che il made in Italy, per quanto continui a essere percepito soltanto come il bello, contiene una tecnologia importante – che comprende le macchine, i componenti e le funzionalità – che deve essere comunicata.
Per questo si profila la necessità di una mappa delle tecnologie presenti in Italia, come quella che ha redatto l’Università di Catania, che a breve pubblicherà in rete i centri di ricerca eccellenti in Italia. Si deve creare una rete trasversale, che diventa per certi versi il miglior distretto, in cui ci sia comunicazione e collaborazione.
Altro elemento del modello di business che dobbiamo sempre più valorizzare è la filiera, una risposta nata spontaneamente e basata sul fatto che una media azienda trova supporto in tante piccole aziende e tanti artigiani, che sono spesso elemento di innovazione o primo input per la media azienda di quel settore. Attraverso i contratti di filiera si deve valorizzare il lavoro delle piccole aziende, perché, con un atteggiamento positivo da parte delle più grandi, si crei uno stimolo maggiore per farle investire e farle diventare più competitive.
Se oggi si declamano poi tante “poesie”, come quella di voler fare sistema, riposizionare il marchio o segmentare il mercato, a questo deve però esserci un seguito. I distretti devono rappresentare un modello organizzativo, che deve intercettare, fare propri e trasmettere i propri valori, attraverso un marketing del territorio, ma questi valori devono poi diventare reti corte, nel caso della filiera produttiva, e lunghe, nel caso della distribuzione e della logistica.
Inoltre, dobbiamo esigere una collaborazione da parte del sistema bancario, affinché agisca in due sensi: da una parte, mettendo a disposizione reti di conoscenze per intercettare i mercati e, dall’altra, fornendo una copertura, non sintetica, com’è avvenuto in passato, ma in modo da permettere alle imprese di trasferire tecnologia assicurando una certa protezione. A questo proposito, un altro punto su cui insistere è la creazione di rating di filiera o di distretto: non è accettabile la riduzione indiscriminata del 30, 40 per cento degli affidamenti a cui si punta oggi.
Il tema finanza è centrale quanto la capacità di comunicare il valore del proprio prodotto, due strumenti che ci consentirebbero di catalizzare maggiori investimenti su questo modello e sui nostri territori. Le associazioni devono fare la loro parte, perché il singolo imprenditore non ha la capacità d’interagire con il mondo finanziario.
Per quanto concerne l’innovazione, poi, dobbiamo avere un atteggiamento di apertura: il protezionismo, adeguato per alcune situazioni, non è al momento la strada giusta per raggiungere i nostri obiettivi. Serve invece sempre più l’educazione del consumatore e, nel promuovere un nuovo progetto in questa direzione, tutti devono fare la propria parte, dal Comune alla Provincia, alla Regione e alle associazioni industriali, in modo da polverizzare i flussi e veicolare un unico messaggio. Diventa prioritario mettere al centro quei valori di cui le nostre aziende sono intrise, in modo che il consumatore possa venirne a conoscenza e fare le proprie scelte. In questo modo potremmo riuscire addirittura a vincere la sfida d’intaccare la parte bassa della clessidra, quella dei commodity.
Certamente dobbiamo fare lobbying nella logistica, nell’acquisizione delle materie prime e in alcune scelte strategiche come la prototipazione rapida, facendo pressione verso le università, in Italia troppo lontane dalle esigenze delle aziende, e i centri di ricerca, per avere gli strumenti adeguati. Lo spin-off universitario e la collaborazione su brevetti devono diventare pratiche più assidue e soprattutto guidate dalle imprese. Ma, ciò che si rivela di fondamentale importanza per i distretti è la qualificazione professionale, anche per far fronte ai problemi connessi con i flussi migratori, di grande impatto per la nostra economia.
Le linee di sviluppo possono essere varie, ma vorrei riportare l’esempio autorevole della Federlegno Arredo e Ambrosetti, le quali hanno definito una strategia per proporre l’Italian lifestyle, con l’intento d’individuare quattro o cinque brand importanti e collegarli a una filiera distributiva in cui una serie di aziende medie trainino le piccole. Il nostro obiettivo deve avvicinarsi a questo, nella creazione di un modello organizzativo forte, ma di livello medio-alto, che rispecchi la qualità del prodotto italiano. Per fare ciò si deve andare oltre il mero business e trovare un linguaggio comune che aiuti a trasmettere i nostri valori.
Un’altra caratteristica delle nostre imprese è la manifattura, intesa come la risposta a esigenze specifiche, le cosiddette soluzioni su misura. La maestria non ci manca, soprattutto nelle relazioni, ma dobbiamo cercare di forgiare un modello organizzativo che permetta a ciascuno di costruire la “propria casa”. Il rinascimento italiano ha dettato nel mondo i criteri con cui fare e vivere la casa, e la casa può essere il punto di partenza, dato che in essa possono trovare posto tante cose, dal cibo all’abbigliamento, all’arredamento fino alle piastrelle. Per questo occorre una struttura solida, che si costituisce attraverso le reti di collegamento fra distretti. Recentemente è stata condotta un’analisi su un campione significativo di persone giovani e di livello medio-alto sulla responsabilità sociale d’impresa, e in particolare sulla possibilità di diventare driver d’acquisto. Su un campione di alcune migliaia, il 65 per cento ha risposto positivamente, rivelando quindi una coscienza forte rispetto a questi temi.
Con Industria 2015, che rappresenta questa coscienza, il Ministero ha messo a disposizione 190 milioni di euro per fare tutto ciò di cui ho parlato finora: creare filiere con l’obiettivo di riposizionare il prodotto, quindi intercettare una fascia medio alta di mercato, trasferire tecnologia e attuare un salto organizzativo e logistico.
Un distretto può avere al suo interno sia aziende che puntano alle nicchie alte che aziende che fanno mass market, ma credo che il nostro atteggiamento debba sempre guardare verso l’alto e puntare verso una qualità superiore. Per concludere con un esempio concreto, vorrei citare il distretto calzaturiero del Brenta, che ha vissuto momenti drammatici a cavallo degli anni novanta, con una caduta su tutti i fronti, che aveva portato le aziende ad abbassare continuamente il livello. Ebbene, da quando hanno deciso di riposizionarsi, hanno contribuito a far diventare il loro distretto uno dei migliori in termini di performance. La nostra attitudine e la nostra creatività ci rendono innovativi e forse più liberi, e anche questo può divenire strumento di marketing.