CIASCUNO FA LA SUA PARTE E QUALCOSA RIMANE SEMPRE
“Della fede e bontà mia ne è testimonio la povertà mia”. Così scrive Niccolò Machiavelli nella famosa lettera del 10 dicembre 1513 all’amico Francesco Vettori (ambasciatore a Roma presso Leone X) dal suo forzato ritiro all’Albergaccio dopo il presunto coinvolgimento nella congiura anti-medicea di quello stesso anno. Se uno dei più grandi autori del rinascimento si ritrovava costretto ad abbinare la povertà alla fede e alla bontà, possiamo dedurne che, ora come allora, fosse ritenuto lecito nutrire qualche sospetto nei confronti della ricchezza e, quindi, del profitto?
Non mi sembra che il pregiudizio nei confronti della ricchezza e del profitto sia così diffuso in Germania, in Dani marca o in altri paesi del Nord Europa, dove ha prevalso quella che Max Weber chiamava “l’etica protestante” (secondo cui la ricchezza generata dal lavoro era segno di elezione divina), che l’economista poneva alla base della nascita del capitalismo. Certo nei decenni successivi alla pubblicazione delle tesi di Weber non sono mancate obiezioni come quella di Luciano Pellicani che, nel suo libro La genesi del capitalismo e le origini della modernità (Rubbettino Editore, 1988), ricostruisce la straordinaria parabola storica del capitalismo, dalla rivoluzione mercantile del Basso Medioevo fino alle soglie della moderna società industriale, e nega l’ipotesi che il capitalismo possa affondare le sue radici nel calvinismo: “Nulla si può immaginare di più estraneo e antitetico al moderno spirito capitalistico – scrive – della predicazione delle sette ri formate, tutte ossessivamente pervase dall’orrore nei confronti di Mammona, percepito – e stigmatizzato – come il maligno corruttore di ogni cosa fisica e morale”.
Tuttavia, per quanto le prime tracce di capitalismo possano essere rintracciate nei Comuni italiani e in città cattoliche come Siviglia, Lisbona, Lucca e Venezia, è innegabile una spaccatura fra un cristianesimo che vedeva nel povero la presenza di Cristo e nella povertà uno strumento per meritarsi il Paradiso e un altro che vedeva nel povero colui che per i peccati commessi era escluso dalla grazia di Dio. In Italia, nella cultura popolare, la ricchezza ha sempre destato sospetto. Da bambino mio nonno ogni tanto mi ripeteva: “Vola basso e schiva i sassi”. Per fortuna, ho sempre pensato che invece occorresse volare alto, almeno per evitare d’inzuccarsi contro i sassi. Ma non escludo che da questo precetto e da questo senso di colpa verso la ricchezza e il profitto dipenda il fatto che l’economia dei paesi che si affacciano sul Mediterraneo sia sempre stata un po’ più frenata rispetto a quella dei paesi del Nord Europa. E da qui potrebbero discendere anche il pregiudizio e gli attacchi verso l’imprenditore e l’impresa nel nostro paese.
E forse anche la difficoltà per le imprese di essere valorizzate dalle istituzioni. A partire dalla sua esperienza internazionale come presidente di Eurolab (Federazione Europea delle Associazioni dei Laboratori di Misura, Prove e Analisi), che cosa può dirci delle differenze fra l’Italia e gli altri paesi europei su questo tema?
La questione è molto complessa e non riguarda solo i laboratori, ma tutta l’Infrastruttura della Qualità (IQ), il sistema di “qualità e conformità” messo in piedi da ciascun paese al fine di assicurare un corretto funzionamento del mercato, tutelare la salute e la sicurezza dei consumatori e salvaguardare l’ambiente. L’Infrastruttura della Qualità è costituita da quattro pilastri: la normazione (UNI, ente nazionale di normazione), l’accreditamento (Accredia, ente unico di accreditamento), la metrologia (INRIM, istituto nazionale di ricerca metrologica) e infine dagli organismi di valutazione della conformità, cioè i laboratori di prova, i laboratori di taratura e gli organismi di certificazione. Grazie alla sinergia tra i suoi quattro pilastri, l’Infrastruttura della Qualità garantisce affidabilità, semplificazione, qualità e integrazione tra i mercati.
Infatti, per accedere ai mercati internazionali, i produttori devono garantire che i loro prodotti siano di qualità costante e conformi alle norme di riferimento. L’accreditamento riconosciuto a livello internazionale e le procedure di valutazione della conformità secondo standard concordati tra i vari paesi, contribuiscono a predisporre processi idonei a stabilire che i requisiti di qualità e sicurezza dei prodotti e dei servizi immessi sul mercato siano conformi alle esigenze e alle aspettati ve delle istituzioni, delle imprese e dei consumatori.
Allora, come si situa il Sistema Qualità Italia nel confronto con gli altri paesi europei ed extra europei? Ebbene, lo studio internazionale “GQII Report 2021: Tends, Comparision & Use of Data”, che considera i differenti elementi dell’Infrastruttura per la Qualità e ne misura il grado di sviluppo in 184 Paesi nel mondo, conferma un’ottima posizione dell’Italia, situandola all’ottavo posto, in una classifica guidata da Germania, Cina e Stati Uniti.
Per quanto concerne i laboratori, nonostante molti di essi lamentino lentezza e qualche inefficienza del nostro ente di accreditamento, Accredia, l’Italia in termini di accreditamento si trova al quarto posto e quindi dobbiamo essere fieri del nostro ente, pur non sottacendo la necessità di ulteriori miglioramenti.
C’è poi un altro fattore di cui tenere conto a livello internazionale: le aziende, stando sul mercato, ne provocano e ne subiscono le accelerazioni, e la velocità con cui si evolvono i mercati e le tecnologie è rapidissima, mentre le istituzioni recepiscono di rimbalzo gli input da parte delle imprese, per cui, sono un passo indietro già in partenza. Prendiamo il caso dell’intelligenza artificiale, dove tra l’altro si sono mossi con grande rapidità in Europa: una nuova tecnologia prima arriva alle imprese, poi le imprese la trasmetto no al mercato e ai cittadini e poi qualcuno si accorge di qualche problema che questa tecnologia provoca. Allora se ne incomincia a discutere a livello istituzionale e governativo, e intanto i tempi si dilatano; in breve, il processo decisionale avviene con una lentezza infinita. E, attenzione, in un’evoluzione tecnologica rapidissima che richiede risposte immediate dai governi, le democrazie rischiano di essere molto svantaggiate rispetto alle autocrazie, dove c’è qualcuno che assume in sé e nella propria cerchia ristretta tutto il potere decisionale. Tuttavia, se in un paese democratico le funzioni apicali sono svolte da persone con una cultura e una preparazione adeguate, come avviene nel caso di Accredia, le risposte ai cittadini e alle imprese arrivano nei tempi giusti, quelli necessari all’espletamento delle pratiche. Probabilmente c’è anche un problema culturale alla base del ritardo con il quale risponde la pubblica amministrazione rispetto alle esigenze delle aziende. A volte la capacità di ascolto da parte della pubblica amministrazione, soprattutto dei funzionari, è pari a zero, anche nei casi in cui si fa l’interesse dell’intera comunità e non di una lobby particolare.
La trasformazione è prima di tutto culturale, poi economica e quindi politica, non viceversa. I fautori dei regimi invece credo no che la trasformazione sia prima politica, poi economica e infine culturale: la “rivoluzione culturale” di Mao era propriamente il tentativo di ripristinare l’applicazione ortodossa del pensiero marxista-leninista che egli riteneva coincidesse con il proprio pensiero…
Infatti, i regimi rimangono in piedi soltanto grazie al controllo sociale e quindi alla limitazione delle libertà individuali, a volte in modo trasparente, attraverso la repressione da parte della polizia di stato e la delazione, come avveniva nella DDR e nell’Unione Sovietica, altre volte attraverso un utilizzo pervasivo della tecnologia che consente di spiare i cittadini ovunque con telecamere e strumenti di riconoscimento facciale, come avviene ancora in Cina, o di influenzarli con il bombardamento di fake news, come avviene tuttora in Russia. Tutta via, proprio perché non godono di un vero e proprio consenso, alla lunga, i regimi sono destinati a cadere.
Di solito crollano o per implosione o per esplosione…
Purtroppo, in questo momento vedo in grandi difficoltà le democrazie. Pensiamo alle ultime elezioni: se c’è una cosa che indebolisce la democrazia è proprio il fatto che i cittadini, soprattutto i giovani, non vanno a votare. Abbiamo avuto un afflusso alle urne inferiore al 50% e questo mi spaventa perché lo considero un rischio per la nostra democrazia. Possibile che si debbano perdere i diritti che abbiamo conquistato per accorgerci del loro valore? Speriamo proprio di no. Ma è una questione culturale accorgersene in tempo e non mi stancherò mai di offrire in azienda iniziative apparente mente estranee al processo produttivo, che però aiutano la crescita culturale delle persone. C’è una bella differenza tra un’azienda di persone culturalmente vivaci, ciascuna con la propria curiosità intellettuale e la propria opinione, e una di persone fossilizzate che evitano di esporsi per paura di essere in disaccordo con i rappresentanti del pensiero unico. Ma questo non è scontato, richiede uno sforzo da parte della direzione aziendale e anche da parte dei collaboratori.
In TEC Eurolab c’è una continua pro vocazione alla riflessione e un’attenzione ai dispositivi della parola con ciascuno…
Noi non abbiamo persone ostili alla direzione, ma, se ci fossero, non sarebbero coloro che non la pensano come noi, bensì chi è indifferente verso il dispositivo della parola, chi dice che tanto non conta parlare e ascoltare: “Io non posso dire e fare niente, perché poi è lo stesso”. Non è vero che non puoi fare niente: non puoi cambiare il mondo, ma ciascuno fa la sua parte. La civiltà è l’insieme di ciò che ciascuno è in grado di costruire nella sua vita.
A questo proposito, la riforma costituzionale della giustizia che prevede la separazione delle carriere sarebbe una forma di civiltà…
Non capisco proprio la battaglia contro la separazione delle carriere: è mai possibile che un magistrato debba ave re la possibilità una volta di accusarmi e la volta dopo di essere il mio giudice? Il giudice deve essere imparziale, ne va della mia vita. Poi, se pensiamo anche a tutte le correnti all’interno della magistratura, sarebbe preferibile che ci facessimo giudicare da un cittadino qualunque, da una giuria popolare. La magistratura è un altro grande problema italiano, senza nulla togliere a quei magistrati che fanno bene il loro lavoro, ma, se qualcuno mi chiedesse che cosa mi ispira la magistratura, risponderei: timore. Penso di non avere mai infranto consapevolmente una norma, a parte qualche divieto di sosta o eccesso di velocità, ma se domani venisse da me un rappresentante delle Forze dell’Ordine e mi mettesse in manette, penserei subito che si è sbagliato, che dev’esserci un equivoco. Eppure, non sarei così convinto che tutto possa finire con un chiarimento: in Italia, c’è il rischio che ti tengano in custodia cautelare per qualche mese e intanto stai in prigione con i delinquenti a ma cerarti per capire quale reato grave tu abbia mai potuto commettere per finire in quella situazione.
Riscriviamo la poesia di Eugenio Montale: “Io me ne sto sul fegato del la terra, trafitto dagli eccessi di bile. Ed è subito sera”. Abbiamo tante cose da fare e così poco tempo per farle. Ma, come dice Carlo Dessy, qualcosa rimane sempre, con tutte le difficoltà e le amarezze, perché non è facile, non lo è per nessuno. Però, con il nostro impegno, qualcosa rimane, per forza deve rimanere, altrimenti è una vita sprecata.