IL MOTTO DI CARRERA: “LAVORIAMO TANTO PER NON CAMBIARE NIENTE”

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amministratore delegato, Carrera Spa

Il mitico marchio Carrera Jeans ha la sua sede nella storica cornice di Villa Trezza, a Caldiero (Verona), un complesso monumentale del XVIII secolo dove si respira una bellezza senza sfarzo, essenziale, indice di quella attenzione alla cultura e all’arte del fare che contraddistingue la qualità dei vostri jeans da oltre sessant’anni…

Il nostro motto, “Lavoriamo tanto per non cambiare niente”, è dettato soprattutto dal pubblico al quale ci rivolgiamo dal 1965, anno della fon dazione di Carrera Spa da parte di mio padre, Tito, e dei suoi fratelli, Domenico e Imerio, che hanno avuto l’intuizione di far produrre alle industrie tessili nazionali il denim italiano, mentre prima il tessuto per confezionare i jeans veniva dall’America. Rivolgendoci a un pubblico maschile, abbiamo puntato a soddisfare l’esigenza che ha l’uomo di acquistare sempre lo stesso pantalone senza bisogno di provarlo. In genere, dopo i trent’anni, l’uomo non ama fare shopping e, una volta trovati il modello e la taglia più adatti a lui, è la moglie che gli porta a casa i pantaloni, ma deve essere sicura che non dovrà tornare in negozio a sostituirli, pertanto noi dobbiamo garantire che non sia cambiata neanche una cucitura rispetto al capo che ha acquistato la volta precedente.

Questo fa parte della vostra ricerca rispetto al profilo del cliente…

Occorre intendere che l’approccio dell’uomo verso l’abbigliamento è completamente differente da quello della donna. Soprattutto se pensiamo al prodotto come linguaggio, non come prodotto in sé – perché l’abbigliamento è il primo strumento di comunicazione non verbale –, notiamo che l’uomo tende a vestirsi sempre allo stesso modo, come se portasse una divisa: il papà vestito sempre uguale è una sicurezza per i figli; invece, se la mamma ha lo stesso vestito per due giorni di seguito, c’è qualcosa che non va. L’uomo ten de a non modificare il proprio stile e, quando lo modifica, vuol dire che gli è successo qualcosa d’importante nella vita: o ha cambiato moglie o ha cambiato lavoro. I nostri clienti sono fedeli perché hanno capito che garantiamo sempre lo stesso prodotto.

In che modo riuscite a ottenere questo risultato, nonostante la vostra sia un’industria con duemila collaboratori?

Siamo stati i primi nel nostro settore, venticinque anni fa, a dotare la nostra filiera integrata di sistemi di tracciabilità tramite la tecnologia Blockchain, perché, per fare i pantaloni sempre uguali, occorre un processo industriale che utilizzi sempre la stessa materia prima, le stesse macchine e, soprattutto, le stesse sarte. Non a caso, nel 1993 abbiamo avviato la nostra filiera integrata in Tagikistan, vicino alle piantagioni di cotone, la nostra materia prima. E, per mantenere l’entusiasmo delle sarte che lavorano con noi da tanti anni, prestiamo molta attenzione alle loro condizioni di lavoro, anche se questo ha un costo notevole: i nostri stabilimenti sono estremamente puliti, climatizzati e luminosi, gli orari di lavoro e gli stipendi sono giusti e i pasti nelle nostre mense molto proteici. Questa è una sostenibilità messa in atto, non soltanto dichiarata, ed è l’unico modo affinché le sarte ogni giorno eseguano lo stesso movimento per ottenere la stessa cucitura, perché se la sera sono stanche fanno un movimento diverso e il pantalone non è più uguale. E per noi c’è molta differenza fra un pantalone fatto bene e un pantalone sempre uguale.

La nostra è un’industria complessa, che ha bisogno di tanta automazione, ma anche di tanta manodopera, quindi è un’organizzazione che viaggia simultaneamente un passo avanti e uno indietro: da un lato, abbiamo l’esigenza di acquisire sempre le migliori tecnologie per velocizzare i processi e, dall’altro, non possiamo spingere troppo l’acceleratore perché gli esseri umani fan no un prodotto di qualità soltanto se lavorano in condizioni ottimali.

Questo accade in tutte le fasi di lavorazione svolte a mano, quindi anche nella raccolta del cotone?

La raccolta può essere automatizzata, anche se in Tagikistan è fatta a mano perché i contadini non hanno le risorse per comprare le macchi ne. E questo è un grande vantaggio perché nella raccolta a macchina, affinché il cotone sia maturo tutto nello stesso periodo, si utilizzano agenti chimici, invece, la raccolta a mano avviene via via che i fiori ma turano, quindi si stressa molto meno la pianta e si produce molto meno inquinamento, oltre a dare lavoro a intere famiglie.

In Tagikistan avete anche la filatura e la tessitura?

Nei primi trent’anni della nostra storia eravamo un’industria confezionatrice, compravamo i tessuti e producevamo in Italia. Quando sia mo andati in Tagikistan non aveva mo delle tessiture a supporto, quindi abbiamo avuto necessità d’integrare l’intera filiera tessile. I nostri tecnici collaborano con i contadini nella coltivazione della qualità di cotone di cui abbiamo bisogno, mentre le fasi successive si svolgono tutte all’interno dei nostri stabilimenti – filatura, tessitura, confezione, lavanderia, stireria, finissaggio, ricamo, stampa e controllo qualità: entra il fiore di cotone ed esce il pantalone.

Quanti jeans producete all’anno?

Circa tre milioni, che distribuiamo principalmente in Italia. Fino agli anni novanta, quando eravamo sponsor dei mondiali e avevamo una dimensione dieci volte maggiore a quella attuale, la produzione avveniva in Italia e comprendeva anche camice, felpe e giubbotti, con una quota export del 50%. Poi, con il crollo del muro di Berlino, i paesi dell’Est Europa sono diventati produttori e quello che era il punto di forza di Carrera, l’organizzazione industriale unitaria, è diventato un punto di debolezza, perché noi avevamo costi molto molto più elevati dei loro, quindi abbiamo dovuto smantellare tutta la filiera industria le in Italia e pian piano costruirla altrove. Io sono entrato in azienda nel 1994, nel bel mezzo delle montagne russe, fra vertenze sindacali e costi esorbitanti, perché chiudere stabili menti costa quasi più che aprirli. Io ero giovane e non ho potuto fare più di tanto, però ho capito quali sono state le tre cose che hanno tenuto in piedi l’azienda: l’unità dei titolari, perché non litigare in quei frangenti è fondamentale per non sprecare le energie indispensabili a risolvere i problemi; la fiducia dei fornitori, perché se ti sei comportato bene con i fornitori ti aiutano nei momenti di difficoltà; e infine il consumatore finale, perché noi non abbiamo mai sgarrato sul prodotto, magari per anni non riuscivamo più a vendere camice (che arrivavano a metà prezzo dal Bangladesh), però abbiamo tenuto le fabbriche dei pantaloni, fintanto che pian piano le abbiamo costruite in Tagikistan.

I problemi che abbiamo avuto negli anni novanta erano enormi, ma mai sul mercato. La crisi è intervenuta perché avevamo tante fabbriche per altrettanti tipi di prodotto che abbia mo dovuto chiudere nel giro di dieci anni. E poi c’era un altro problema: le nuove generazioni che andavano a scuola non volevano più lavorare alla macchina da cucire. Negli anni sessanta le donne non studiavano, quindi per loro avere uno stipendio era una cosa molto ambita e ne erano orgogliose, fino al punto che le nostre operaie, che erano fra le prime ad avere il giorno di riposo al sabato, quel giorno si vergognavano di usci re di casa per paura che qualcuno chiedesse loro perché non erano in fabbrica. Le figlie però non hanno seguito le orme delle madri e questo ci aveva fatto capire che il percorso si sarebbe presto esaurito. Cosa che invece non accade in Tagikistan, dove lavorano madri e figlie, perché non hanno tante alternative. Inoltre, nella cultura islamica una donna che lavora ha un’opportunità incredibile, quella di essere indipendente economicamente, anche perché, nel caso in cui venga ripudiata, avere uno stipendio vuol dire avere la vita.

È un apporto straordinario che date a duemila donne…

In effetti, è una forma di sostenibilità molto più importante di quel la che si preoccupa di controllare i livelli di CO2 emessi dalle nostre aziende, soprattutto se non smettono di viaggiare navi da crociera sempre più grandi e aerei vuoti per mantenere le linee.

È una scelta: se vuoi l’auto con il condizionatore, da qualche parte bi sogna pure prendere l’energia, altri menti vai a vivere con una capretta nel parco naturale dell’Abruzzo, è un’altra vita. Ma non può essere una scelta ipocrita, non puoi volere il benessere ed evitare l’inquinamento. Invece i politici non fanno altro che parlare di Pil – perché è quello che garantisce che la gente lavori – e poi, dopo l’avvento di Greta Thunberg, attaccano al Pil la parola “sostenibilità”. Ma in realtà sono due termini antitetici: sostenibilità vuol dire che devi rinunciare a qualcosa, devi tornare indietro, mentre nessun politico vuole tornare indietro. Allora mettono insieme due cose che non possono stare insieme: siamo cresciuti di Pil però facciamo le norme sulla sostenibilità. No, fate solo norme che sono carte inutili, perché più Pil vuol dire inevitabilmente più inquinamento. Meno Pil, perché vuoi essere sostenibile, vuol dire disastro sociale, perché poi non sai più come controllare la gente che non lavora. Abbiamo visto l’Ilva di Taranto: inquiniamo o lavoriamo? Devi decidere: non puoi lavorare senza inquinare, se chiudi l’Ilva vanno a casa 10.000 persone e non inquini più, ma devi decidere cosa fare. Certo, si può lavorare e produrre lo stesso se ci diamo dei limiti, e in Europa ce ne siamo dati tanti, anche troppi, mentre nessuno controlla chi non se li dà: purtroppo, i problemi di inquinamento non sono qui, sono a 7000 chilometri da qui, ma qualcuno va a parlare con l’India e con la Cina? No, ci va bene così, e qui facciamo norme assurde che mettono in difficoltà le aziende, ma intanto Shein e Temu ti mandano direttamente i prodotti a casa a un terzo del prezzo. E fine di tutte le nostre industrie, fra tre anni ce ne sarà la metà.

Carrera comunque ha guadagna to la fedeltà del consumatore anche grazie a quella che chiamiamo “filiera del rispetto”, dove tutti devono viaggiare in Golf, non ci può essere l’azienda che va in Ferrari e i fornitori che vanno in Panda, come succede invece nella maggior parte dei casi: se tutti vanno in Golf vuol dire che non ci può essere un sovra margine di qualcuno, e nella filiera del rispetto non può mancare l’attore principale, il consumatore, che non deve bere tutto ciò che gli passano. Come possono vantarsi di essere sostenibili aziende che fanno sovrapprezzi senza nessuna logica? Le griffe vendono a 2500 euro una borsetta che ne costa 50. E questo sarebbe rispetto per il consumatore? Carrera ti offre il meglio della qualità a un prezzo rispettoso per il tuo portafoglio, non è il primo prezzo, è il prezzo giusto, quello che consente a tutta la filiera di andare in Golf e al consumatore di acquistare senza un sovrapprezzo. In una filiera così non ci sono margini elevati, non c’è qualcuno che guadagna in eccesso, ma in cambio c’è una grandissima fedeltà del mercato.