LA LIBERTÀ DELLA PAROLA
"La libertà consente di essere padrone della propria vita e di fare poco conto delle ricchezze”. Con questa formulazione, Platone inaugura la mitologia occidentale che identifica libertà e padronanza, in particolare sulla propria vita, come se questa fosse a disposizione. E già evidenzia lo slittamento di tale discorso verso l’eutanasia: perché la padronanza della propria vita non dovrebbe giungere al punto di costituirci padroni di concluderla quando decidiamo di farlo? Così, la libertà di vivere diventa libertà di morire, la libertà di assumere la morte con un colpo solo, magari inflitto dallo stato, o a dosi quotidiane: ecco la massima espressione dell’idealità chiamata padronanza. Le sue figure si stabiliscono in nome della libertà: la morfologia dei rapporti di forza, il sistema delle filiazioni, la genealogia del potere politico. Non a caso, il despota, il tiranno e il vampiro agiscono in nome della libertà: la promessa della libertà è lo slogan delle dittature contro la libertà del pensiero, della parola, della scrittura.
Che ne è di una libertà che non abbisogna della padronanza di sé o dell’Altro? Lontana dall’idea che ognuno ha della propria vita, che è impensabile, lontana dal fantasma di padronanza, che è l’idea di origine e di fine delle cose, la libertà della parola esige la questione intellettuale. Questione di apertura e di assoluto, questione di ricerca e d’impresa, questione di scienza e di finanza. La libertà non è libertà di essere o di avere, non può essere presa né data, non è situabile, dunque non può essere detenuta. La testimonianza del dissidente cinese Wei Jingsheng prova che la libertà esige la dissidenza, che non c’è luogo o regime che riesca a confiscarla, nemmeno con la prigione. E il testo della scrittrice Marina Nemat sottolinea che la libertà va ritrovata con la scrittura, quando i ricordi non pesano più, perché a scriversi è la memoria, che giunge alla dimenticanza. Esige la libertà intellettuale anche un’esperienza come quella raccontata nell’intervista a Avraham Burg, che nota che non c’è libertà finché restano i fantasmi del passato.
La libertà della parola esige il diritto al sogno di cui parlava Borges e il diritto alla dimenticanza di cui scriveva Jonesco. Non a caso, il sogno e la dimenticanza sono banditi dalle dittature, che devono svegliare le masse e commemorare stragi e vittorie. E bandita è anche l’arte che non si allinei al regime, che non soggiaccia al naturalismo, aspetto eminente del convenzionalismo sociale. Parlando dell’arte di Antonio Vacca e di Silvestro Lega, l’articolo di Shen Dali coglie come l’arte, anche astratta, non si conformi alla natura o all’armonia sociale, non le riproduca, semmai ne coglie la tensione. Tensione e distensione non si oppongono, entrano nell’ossimoro, nell’ironia della sorte con cui la questione resta aperta, senza conflitto, senza dicotomia. Questa tensione è intellettuale: in questa apertura le cose si combinano in una relazione libera, in un contrasto senza esclusioni da cui procede la libertà.
Platone dice che la libertà consente di fare poco conto delle ricchezze, fondando il pregiudizio per cui il denaro, e con esso la ricchezza, rende schiavi. Vincolo di tutti i vincoli, definiva il denaro Karl Marx: la sua condanna del denaro diveniva poi la condanna del capitale, e dunque dell’impresa che sul capitale si fonderebbe. Le testimonianze degli imprenditori in questo numero, in particolare a proposito del made in Italy e del distretto delle ceramiche, provano che l’impresa non si fonda sul capitale, ma occorre che al capitale, al valore, alla qualità giunga. Con l’impresa, la ricchezza è nella parola, nel programma, nelle cose che si fanno e si producono: in questo senso è ricchezza di spirito.
Solo identificando l’impresa con i rapporti di produzione, come in Marx, dunque facendo dell’impresa un sistema di relazioni, l’impresa si oppone alla libertà e, ancor prima, non è libera.
Come indica l’attuale crisi, l’impresa, la banca e l’assicurazione non hanno tanto bisogno che lo stato le sostenga, quanto che non si sostituisca alla politica e che la politica non si sostituisca allo stato, perché non venga meno l’indipendenza dell’impresa. L’impresa assicura l’indipendenza di ciascun dispositivo privato e pubblico, per questo è essenziale alla libertà. La crisi esige nuovi assetti e un’altra globalizzazione, senza più protezionismo.