IL PIACERE DI PAGARE LE TASSE?

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dottore commercialista

Nell’esilarante, ilarotragico Il pia cere di pagare le tasse, apparso su “Il Messaggero” del 29 Maggio 1986, Giorgio Manganelli scriveva: “Stamane ho pagato le tasse. Come ogni volta, ho avvertito un oscuro, profondo, incomprensibile piacere. Non avete capito male: pagare le tasse mi dà una gradevole, indubitabile eccitazione. Non lo nego: è una faccenda strana. Anomala. Stravagante. Mi sono chiesto spesso: perché, vecchio idiota, ti fa piacere pagare le tasse? […] È del tutto chiaro che in questo compiaci mento non v’è traccia di esibizionismo civico. […] Non mi offro come modello, come esempio del buon cittadino, virtuoso come un antico spartano. Come tutti gli italiani degni di questo nome, io sono un cittadino mediocre, diciamo pure scadente. […] Credo che tutti gli italiani si sentano più o meno a questo modo. […] L’italiano non si stupisce se qualcuno viene arrestato, mai. Lo trova naturale. Solo silenziosamente si stupisce di non essere lui, l’arrestato. […] Gli italiani, man mano che invecchiano, sempre più si rallegrano e stupiscono di non essere mai stati arrestati. […] Personalmente, compiango l’evasore fiscale. Questa figura classica del «cattivo cittadino» evita l’unica forma di riscatto che lo stato gli offre. Se gli va bene, nel momento in cui evade il fisco ribadisce il suo italiano senso di colpa; si sentirà furbo e scadente. Se non gli riesce, sarà punito, e cadrà nella categoria risibile di coloro che non l’hanno fatta franca. Ho usato la parola «riscatto» a proposito: poiché gli italiani si sentono a piede libero, dunque in una condizione precaria e fragile, sanno di essere ricattabili, […] ad essi sembra naturale che gli venga chiesto un riscatto, come fan no i sequestratori. Forse questo è il segreto del piacere che mi dà pagare le tasse. Io pago, e lo Stato non mi getta in prigione. Vengo restituito a me stesso. Quando esco dalla banca, corro a prendere l’autobus con passo leggero. Sono un evaso con i documenti in regola. È meraviglioso”.

Quali i rimandi e le associazioni suscitati dallo scritto di Manganelli? Forse al diritto, fondato, come tradizionalmente si sostiene in una lingua nella quale la filosofia del diritto non ha certo mancato di esprimersi, sulla schuld, e dunque, allo stesso tempo, sulla colpa e sul debito? Forse, ancora, al fatto che non si obbedisce alle leggi in quanto giuste, ma perché hanno autorità, ovvero portano con sé una forza, una gewalt (letteralmente “violenza”), identificabile proprio con quello che Montaigne indicò come il “fondamento mistico dell’autorità”? Intanto, nessuna giaculatoria, da parte mia, contro la violenza che permea il diritto (considero triviali le invettive, in materia, di Walter Benjamin e Simon Weil), o contro lo stato moderno postnapoleonico, fon dato, apparentemente, su un sistema giuspositivistico di impianto kelseniano (e nei fatti sul dominio presso ché assoluto dell’amministrazione). Nessuna critica, quindi, della gewalt intensa come violenza originaria, ma riaffermazione, piuttosto, della primalità dell’esistente sul questiona mento dello stesso (Spinoza, Wright, Whitehead). Ciò posto, si limitano alla schuld e alla gewalt intese in senso metagiuridico (ovvero quali fonda menti inespressi del diritto) i rimandi suscitati dallo scritto di Manganelli? Nient’affatto, e al riguardo osservo che la gewalt e la schuld intervengo no bensì, lepidamente, nella normogenesi stessa del sistema giuridico e in specie di quello tributario. In che modo?

È perfettamente constatabile che nessuna disposizione di legge può fare uso di un linguaggio “purificato” (vagheggiato dagli atomisti logici). Per esempio, il diritto tributario “presuppone” i lemmi non solo del diritto civile e commerciale, ma anche del linguaggio comune. Senza contare che le disposizioni di legge non sono in grado di recare seco l’interpretazione di se stesse. Ora, il linguaggio comune (l’unico su cui può fondarsi la normopoiesi) permea l’erlebnis del parlante. Ed “[…] è fatta di forati la vita di ogni giorno” (in luogo che di mattoni pieni), scrive Emilio Rentoc chini. Come rimediare a tale assenza di grund giuridico, che rischia perennemente di vulnerare il principio, certo convenzionale e tuttavia irrinunciabile nello stato moderno, della certezza del diritto? Una prima soluzione è consistita nello stabilire un sistema giuridico fondato sulla kelseniana Stufenbautheorie (letteralmente “Teoria della costruzione a gradini”), secondo cui una norma è giuridica mente valida se emanata conforme mente ai criteri stabiliti dalla norma di grado immediatamente superiore. Per esempio, se una disposizione tributaria è variamente interpretabile, si dovrà giocoforza far prevalere, al fine di sciogliere il dissidio ermeneutico, quella sola interpretazione che appare coerente con il dettato o i principi della carta costituzionale (essendo la costituzione collocata al vertice della piramide) e dequalificare, per contro, ogni interpretazione a questa alternativa. Ma come interpretare, per esempio, nell’articolo 53 della Costituzione, il lemma “capacità contributiva” (la cui indeterminatezza ha consentito, per esempio, l’istituzione di un’imposta come l’Irap, fondata sulle stravaganti teorie di Studenski)?Si risponderà agevolmente che uno stato moderno, fondato sulla tripartizione dei poteri, è perfettamente in grado di tollerare l’incapacità della norma positiva, anche a dispetto della sua incardinazione in un sistema piramidale, di saturare il proprio dominio. Ciò significa anche che il legislatore dello stato in questione potrà, in prima istanza, fare buon uso della normazione cosiddetta “ellittica” o “di principio”, così assegnando de facto all’interprete il compito di ricostruire, grazie ai canoni ermeneutici ritenuti più idonei ad assecondare la processualità “per gradini” del siste ma normogenetico-interpretativo, il dominio, certo non saturabile, delle disposizioni così emanate.

Una seconda tecnica in uso nella normogenesi dello stato moderno consiste da sempre nell’emanare disposizioni casistico-tassative, ossia esasperatamente tassonomiche e micrologiche, congegnate, in altri termini, in modo tale da sbarrare la strada all’interpretazione. E anche qui, nessuna giaculatoria contro la legiferazione di stampo casistico, che permea la normopoiesi della maggioranza dei paesi di civil law. E ciò in quanto ritengo, di nuovo, che vada riaffermata la primalità dell’esistente sul questionamento dello stesso. Salvo che, sbarrando la strada all’interpretazione estensiva e sistematica, la tassonominazione esasperata delle fattispecie finisce per escludere dal dominio della norma positiva tutti i casi da essa non espressamente enucleati, aprendo così la strada a un elemento stocastico, al quale non si potrà ovviare, se non con una nuova legiferazione a rebours, con la quale si tenterà di suturare l’incompletezza della norma originaria con una ulteriore statuizione di stampo micrologico. E, tuttavia, se ci si fermasse qui, si rischierebbe di obliterare la posta in gioco sottesa a una simile tecnica di normazione. La statuizione di disposizioni tassonomiche e allo stesso tempo scientemente congegnate in modo tale da risultare imperscrutabili e stocastiche, tali insomma da introdurre, a carico del contribuente, adempimenti insieme micrologici e indecifrabili, sortisce l’effetto non solo di trasformare l’amministrazione nella vestale dell’interpretazione e della stessa normopoiesi (in quanto la norma da applicare è, in ultimo, quella risultante dall’interpretazione resa dalle circolari ministeriali, le bolle papali dei nostri giorni), ma anche di introdurre nel contribuente, grazie alla gewalt, l’elemento della schuld: il terrore di non essere all’altezza degli adempi menti imposti dalla legge. Come non ricordare, in proposito, la dichiarazione dei redditi modello 740 definita “lunare” da Oscar Luigi Scalfaro? Come negare, del resto, che decifrare la bolletta della luce è più complicato ed estenuante che interpretare l’algoritmo di un derivato esotico? In tal modo, la gewalt, da fattore extragiuridico finisce per essere incorporata nello stesso processo normogenetico, che finisce esemplarmente per optare per una tecnica normopoietica allo stesso tempo tassonomizzante e stocastica. Considero magistrale, in tal senso, il dialogo Leggi di Platone, nel quale si delinea il progetto di un siste ma normativo in grado di disciplinare micrologicamente ogni aspetto del la vita dei cittadini: dall’educazione alla famiglia, dal sesso alla proprietà, dai simposi alle attività ludiche, dal commercio alle attività culturali. Certo, nel progetto delle Leggi la normopoiesi, di competenza del filosofo, poggiava saldamente sul grund rappresentato dalla definizione logica (illusione tramontata con il declino dell’ontologia) e in ogni caso il pro getto platonico sottendeva la nobile finalità di prevenire il decadimento dei costumi civili, in quanto foriero di guerre e distruzione. Ciò non toglie che una gewalt tassonomizzante sia sussunta, non solo a livello metagiuridico, nell’intero dialogo platonico. E, di nuovo, se ci si fermasse qui, si rischierebbe di obliterare un nuovo, importante elemento: quello, segnata mente, sotteso dai Decreti ministeriali della Presidenza del Consiglio del governo Conte. Tali atti amministrativi, del tutto irriguardosi del principio costituzionale di riserva di legge (oltre che di una serie di altri principi costituzionali), hanno introdotto una pletora di prescrizioni casistico-tassative che parevano rampollare dal delirio psicotico di Schreber: in base a taluna o talaltra di tali disposizioni apparentemente deliranti, per esempio, solo chi risiedeva in un comune con un numero di abitanti inferiori a x poteva recarsi per fare acquisti di generi alimentari nel comune limitrofo, mentre, per un certo periodo, chi era sprovvisto del green pass poteva effettuare consumazioni solo al bancone e non anche assiso al tavolino del bar. In tal modo, si mirava a protocollare micrologicamente le diverse condotte del cittadino, al fine di parcellizzare il suo erleben in una serie di pratiche irrelate e di esercitare, così, su di esso una gewalt assoluta (e non certo al nobile fine di evitare conflitti). E, tuttavia, una tale proto collazione micrologica delle condotte del cittadino non era naturaliter in grado di instillare, in esso, il gradiente di colpa desiderato dai detentori della gewalt, che non si identificavano con le autorità nazionali, bensì agivano, a livello transnazionale, al riparo e con la connivenza di queste, tant’è che le stesse misure sono state adottate contemporaneamente, pur senza alcun coordinamento preventivo delle diverse autorità nazionali, in Canada, Australia, Nuova Zelanda e nella maggior parte dei paesi europei. Il compito di diffondere la schuld nel corpo sociale, prima propugnando un ipercivismo d’accatto (con l’invito a prestare adesione alla gewalt sanitaria al nobile fine di proteggere gli anziani) e poi scatenando brutalmente la caccia all’untore (con l’ostracismo di coloro che non ave vano prestato adesione a tale gewalt), è stato così affidato ai media, che si sono scoperti i veri detentori della gewalt normopoietica (certo al servizio del padrone). Per conseguenza, si può ancora parlare di piacere nell’espiare la schuld nei confronti dei detentori della gewalt? O si deve piuttosto riconoscere che, a fronte dell’abbacinante enormità degli accadimenti verifica tisi a partire dal 2020, tali categorie si sono letteralmente liquefatte a causa dell’irrompere di una nuova teleologia normopoietica, volta alla parcellizzazione dell’erleben stesso del cittadino?