IL DIRITTO DEL LAVORO: L’IMPRENDITORE COME SORVEGLIATO SPECIALE?
Come scrive Ferdinando Cionti nel libro Liberare la giustizia (Licosia), con l’introduzione dello Statuto dei lavoratori si è creata una sorta di normativa speciale rispetto a quella del codice civile. La creazione di un giudice unico, la partecipazione al processo di terzi (i sindacati) rispetto alle parti (lavoratore, operaio) comporta uno sbilanciamento a svantaggio dell’imprenditore, che si trova con tre controparti: il giudice, il lavoratore e i sindacati. Qual è la sua esperienza a questo proposito?
Il diritto del lavoro e la relativa disciplina processualistica sono, a tutti gli effetti, “micromondi” che non sono governati soltanto dalla pura e semplice normativa, ma risentono di fattori esterni di più ampio raggio che hanno a che fare con la socialità e con lo sviluppo economico del paese.
In questo contesto, ove i protagonisti sono l’impresa, il lavoratore, i sindacati e, infine, il giudice, certamente l’imprenditore riveste il ruolo di “sorvegliato speciale”, nel senso che le sue decisioni sono sottoposte all’esame di tali interlocutori, in plurime occasioni.
Si pensi che esistono previsioni contrattuali e normative che impongono al datore di lavoro di informare e consultare il sindacato quando intende intervenire sull’organizzazione dell’impresa. Oppure all’azione diretta che ha il sindacato, ai sensi dell’art. 28 dello Statuto dei lavoratori, di agire giudizialmente verso il datore di lavoro per l’accertamento e la repressione della condotta antisindacale, quella che si definisce tale da impedire o limitare l’esercizio e la libertà dell’attività sindacale. E, ancora, al potere del giudice, ai sensi dell’art. 421 del Codice di procedura penale, di disporre d’ufficio la richiesta di informazioni e osservazioni, sia scritte sia orali, alle associazioni sindacali.
Di fatto il datore di lavoro che, dal punto di vista contrattuale, è spesso associato a una posizione di potere, nel processo diviene la parte su cui gravano i maggiori oneri processuali, poiché nella stragrande maggioranza delle vertenze è su tale soggetto che ricade, dal punto di vista probatorio, il duro compito di convincere il giudice di avere agito correttamente, in buona fede e in adesione alle norme. In base alla mia esperienza e alle dinamiche processuali, per un avvocato giuslavorista è più ardua la difesa dell’imprenditore proprio per tali aspetti.
Il datore di lavoro è anche un imprenditore, dunque assume il rischio di impresa, per cui le sue decisioni incidono sull’avvenire dell’impresa e dei lavoratori stessi. In che modo l’intervento della magistratura, che spesso decide in luogo dell’imprenditore la riduzione di un reparto o addirittura il fermo dell’attività dell’impresa, lede la possibilità di organizzare il lavoro? E, dunque, lede il principio della libertà d’impresa e ha pesanti ripercussioni nell’economia del territorio o addirittura della nazione?
L’organizzazione del lavoro che l’imprenditore intende adottare è soggetta al vaglio della magistratura, nei casi di impugnazione di licenziamenti per motivi economici, di trasferimenti d’azienda o di trasferimenti di un singolo dipendente, e così via.
Su questo tema vi è sempre stata un’annosa questione tra l’iniziativa economica e la libertà dell’impresa, tutelate dall’art. 41 della Costituzione, da una parte, e, dall’altra, gli interessi dei lavoratori che, nello schema valoriale al quale si ispira la Costituzione italiana, assumono un ruolo concorrente agli aspetti di natura economica.
In linea di principio il controllo giudiziale è diretto a indagare la veridicità delle motivazioni addotte dall’imprenditore a fondamento della riorganizzazione e l’effettività della stessa, proprio per scongiurare che vengano assunte decisioni non fondate su un’effettiva esigenza imprenditoriale ma dirette meramente a espellere un lavoratore dall’azienda. Tuttavia, sempre in linea di principio, la magistratura non può sindacare nel merito della scelta adottata dall’imprenditore.
Sottolineo “in linea di principio” perché nella realtà dei fatti l’intervento della magistratura indubbiamente incide sull’organizzazione imprenditoriale perché scandaglia il processo decisionale che ha condotto il datore di lavoro a eliminare una posizione o a trasferire un dipendente, passando in rassegna tutte le possibili soluzioni alternative che l’imprenditore avrebbe potuto assumere, ad esempio, per non licenziare o per imporre il minor sacrificio al lavoratore.
Fino a qualche tempo fa, ad esempio, la giurisprudenza sosteneva che un licenziamento per motivi economi ci non era legittimo se non in presenza di un andamento economico negati vo dell’azienda; quindi, in sostanza, l’imprenditore che voleva solo snellire l’organico aziendale per essere più efficiente e competitivo nel mercato, pure a fronte di una situazione economica non sfavorevole, non poteva farlo. Ciò obiettivamente costituiva un grande limite. Negli ultimi anni questa visione rigida è stata via via abbandonata, ma permane comunque una forte ingerenza della magistratura nella messa a punto dei processi aziendali perché, facendo l’esempio di un licenziamento per motivi economici, il datore di lavoro deve provare non solo i motivi che l’hanno condotto a eliminare quel posto di lavoro, e per ché proprio quel lavoratore, ma deve provare inoltre che quel lavoratore non era utilmente ricollocabile in altre mansioni, anche inferiori. Se il datore di lavoro non fornisce prova anche soltanto a uno di tali aspetti, inevitabilmente il licenziamento viene annullato, con la conseguenza che, in caso di reintegrazione, l’azienda dopo molti anni – che nel frattempo si era dotata di un diverso assetto organizzativo in virtù di quel licenziamento – si ritrova a dover affrontare uno stravolgimento.
La riforma dell’art. 18 dello Statuto dei lavoratori ha comportato effettive novità pratiche alla possibilità di licenziare, che pure rientrerebbe nella responsabilità della direzione d’impresa?
La riforma dell’art. 18 ha costituito una grande novità nel panorama del diritto del lavoro, se non altro perché ha introdotto una diversificazione delle tutele a fronte della declaratoria di illegittimità del licenziamento. Di fatti, a seconda del tipo di violazione accertata dal giudice, si dà luogo alla tutela risarcitoria, ossia una sanzione di tipo economico in capo al datore di lavoro e, solo in alcuni casi previsti dalla legge, alla tutela reintegratoria (rientro nel posto di lavoro).
L’intento del legislatore era quello di favorire un mercato del lavoro maggiormente dinamico, restringendo la possibilità di ottenere la reintegrazione nel posto di lavoro e di aumentare la certezza del diritto, ma l’indeterminatezza della terminologia impiegata ha prodotto l’esatto contrario.
La norma è stata in più punti censurata dalla Corte Costituzionale e l’effetto di tali sentenze è stato notevole, poiché la volontà del legislatore del 2012 di limitare al massimo le ipotesi di reintegra, riducendola a eccezione, è stata completamente stravolta, cosicché la tutela reintegratoria – dall’essere concepita come un’eccezione – è divenuta nuovamente la regola tendenzialmente applicabile in ogni caso di licenziamento di cui si accerti la carenza del presupposto giustificativo.
Dunque, concretamente, non vi sono state novità nella possibilità di licenziare, anzi la diversificazione del le tutele ha comportato – negli anni antecedenti alle pronunce della Corte Costituzionale – enormi problemi interpretativi che si sono ripercossi sulle decisioni degli imprenditori, i quali obiettivamente brancolavano nel buio poiché non potevano preventivare gli effetti di un’eventuale declaratoria di illegittimità.
Nel suo libro L’intelligenza del lavoro (Rizzoli), Pietro Ichino nota che fra la do manda e l’offerta di lavoro, che pure sono entrambe considerevoli, c’è come uno scollamento, una mancanza d’incontro. Cosa può fare il diritto per favorire la ripresa dell’occupazione?
Il problema che spesso si crea è che gli strumenti previsti dalla legislazione per favorire l’occupazione – ce ne sono e ce ne sono stati tantissimi (sgravi contributivi, forme contrattuali flessibili) – sono spesso stati utilizzati in maniera impropria, con la conseguenza di produrre più contenzioso che occasioni di lavoro.
La legislazione dovrebbe invece innescare un “circolo virtuoso”, offrendo strumenti vantaggiosi ai soggetti che mettono in campo valide iniziative, anche nell’ottica di far emergere il lavoro irregolare, combattere l’illegalità, elevare il benessere economico nelle imprese e la soddisfazione dei lavoratori, favorire la formazione di categorie sociali svantaggiate.
Spesso l’avvocato giuslavorista viene chiamato per dirimere contese fra datore di lavoro e lavoratori. In che cosa consiste il suo intervento? C’è qualche aneddoto che può raccontarci?
Il ruolo dell’avvocato giuslavorista è fondamentale non solo tecnicamente come difensore nell’ambito di un contenzioso giudiziale, ma anche nel la fase del tentativo di conciliazione volto a dirimere la vertenza tramite reciproche concessioni e rinunce che, solitamente, si svolge tra le parti o prima dell’azione giudiziale o nelle fasi iniziali del processo.
In questa fase l’avvocato deve utilizzare competenze non solo giuridiche, ma anche relazionali: deve avere, prima di tutto, chiari quali sono i punti di forza e di debolezza della posizione del proprio cliente e deve ascoltare gli interessi della parte al di là delle pretese giuridiche avanzate e, nel contempo, fare da filtro in quanto la posizione della parte è sovente governata da risentimento verso la controparte e, per tale motivo, da una minore razionalità. In molti casi è proprio l’approccio del professionista che influisce sulla buona riuscita della conciliazione che, talvolta, è preferibile alla via giudiziaria. L’obiettivo di ogni conciliazione non è vincere la controversia, ma risolvere il problema nel minor tempo.
Ad esempio, ho raggiunto una conciliazione in un caso molto singolare, ove la dipendente – tramite un astuto meccanismo e grazie alla libertà di azione concessale dal datore di lavoro – aveva direttamente accesso al conto corrente bancario del datore e si appropriava indebitamente di somme versandole in suo favore tramite bonifico. Quando il datore si è avveduto, l’importo era divenuto ingente, per cui la conveniva in giudizio al fine di ottenere la restituzione degli importi.
Anche in tal caso, sebbene il datore di lavoro avesse dalla sua parte tutte le fonti di prova per convincere il giudice, è risultata preferibile la composizione della lite per ottenere un buon risultato in tempi brevi.
Questo, come altri casi affrontati nel corso della mia esperienza, non sono di semplice gestione proprio per l’astio tra le parti, ma il ruolo dell’avvocato è anche quello di incentivare soluzioni che, pur sempre rispettose dei diritti della parte, siano più efficaci di una sentenza calata dall’alto, che giunge dopo diversi anni e a fronte di notevoli esborsi economici.