GIUSTIZIA E (ABUSI DI) POTERE

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avvocato cassazionista

Nel corso del mese di luglio è stato definitivamente approvato il cd. DDL Nordio, noto soprattutto per avere abolito il reato di abuso d’ufficio, già previsto dall’art. 323 c.p.

Vedremo poi perché questa abrogazione e gli altri interventi previsti nel DDL, che pur vanno nella corretta direzione, ma che il Governo ha cercato di spacciare per il primo stadio di una ‘epocale’ riforma della giustizia – che vede il secondo stadio nel colpevolmente tardivo Disegno di legge di revisione costituzionale che solo a legislatura inoltrata è stato presentato in Consiglio dei Ministri e che dovrebbe portare (ma si nutrono fondati dubbi che si arrivi alla conclusione del percorso entro fine legislatura), dopo il doppio passaggio parlamentare e dopo il probabile necessario referendum confermati vo, alla separazione delle carriere e alla riforma del CSM – in realtà sono poca cosa.

Quel che invece merita evidenza è come la battaglia che si è consumata intorno all’abolizione del reato di cui all’ex art. 323 c.p. sia in realtà paradigmatica della cruenta battaglia che si è consumata e si consuma tra poteri dello Stato, a partire dal 1992, anno in cui ebbe inizio la cosiddetta Tangentopoli.

In quell’anno, come noto, la magistratura milanese, nonostante le denunce del malaffare della politica giungessero a centinaia anche negli anni precedenti – dal dopoguerra al 1992 – decise di indagare come mai fatto prima: e partì una valanga che scoprì in tutta Italia quel che a tutti era noto, anzitutto alla stessa magistratura che in precedenza, a Roma come a Milano, a Palermo come a Napoli, insabbiava regolarmente le denunce che riceveva, con ciò assumendo la responsabilità storica di aver fatto crescere quel che Marco Pannella chiamava il ‘regime partitocratico’.

Non merita qui scandagliare le ragioni che diedero, nel 1992 e negli anni a seguire, il via libera a un’operazione attraverso la quale, in una stagione, vennero rivoltati tutti gli equilibri tra poteri, quanto piuttosto capire come quella lotta tra poteri, condotta con metodi più che discuti bili e con l’incondizionata esaltazione dei media – i mezzi prefigurano i fini – abbia ridisegnato gli stessi tratti somatici della democrazia Repubblicana trasfigurandola in una Repubblica giudiziaria.

E la battaglia consumata di recente intorno all’abolizione della figura di reato dell’abuso d’ufficio è giustappunto paradigmatica di questa trasfigurazione, conseguente a una storica battaglia tra poteri e di potere tra parti (la politica da un lato e la magistratura dall’altro), in cui nessuna delle due parti – come han no reso noto all’opinione pubblica le vicende successive al cosiddetto scandalo Palamara, ma anche questo dato, con il suk delle correnti, era assolutamente conosciuto dagli addetti ai lavori e dai meno sprovveduti – può rivendicare di avere indefessamente agito nell’interesse del Paese e della cosa pubblica.

I morti e i feriti di questa guerra, oltre a quelle persone in carne e ossa suicidate o irreversibilmente trafitte dalla gogna mediatica, si chiamano Partiti, Parlamento, CSM, Magistratura, cioè presidi e istituzioni astratta mente democratiche irreversibilmente sfiduciate dall’opinione pubblica.

Il reato di abuso d’ufficio, tornando a noi, era un reato ‘residuale’, una specie di norma di chiusura tra i reati contro la Pubblica Amministrazione (i reati propri dei pubblici ufficiali, dunque in primis dei politici eletti o nominati alla guida di enti pubblici), un reato da utilizzare per indagare un politico quando non si presentava nulla di più grave o “interessante”; in breve, una spada in mano ai PM da brandire contro la politica.

Beninteso, non ci sarebbe stata nessuna necessità di abolire il reato in sé, se la fattispecie disegnata dal legislatore fosse stata interpretata in buona fede nel corso degli anni, se per la sua interpretazione fosse ro stati applicati principi sacri del diritto penale, principi liberali cristallizzati anche nella Costituzione, e finalizzati a contenere l’esuberanza “interpretativa” della magistratura. Anzi, come correttamente è stato evidenziato dai detrattori della riforma, si trattava di norma volta a tutelare i cittadini davanti all’abuso di potere dell’autorità pubblica.

Sennonché quella stessa “autorità pubblica” aveva l’assoluta necessità di tutelare se stessa e il proprio agire da un altro abuso di potere, quello che negli anni la magistratura inquirente, in nome dell’abuso d’ufficio, compiva nei confronti dell’autorità pubblica: migliaia di indagini e procedimenti aperti, paginate di giornali a esaltare le indagini con l’uso di atti ancora non riscontrati e coperti dal segreto, Giunte, Consigli, Sindaci eletti, Presidenti di Regione, costretti alle dimissioni e poi, ad anni di distanza, regolarmente assolti (davvero poche decine le condanne definitive nel corso degli anni a fronte dei procedimenti aperti e portati avanti dalla magistratura inquirente).

Il risultato, benché propagandato dal Governo come una svolta epocale, come si diceva, è in realtà ben poca cosa, frutto di compromessi tra le due parti, politica e magistratura.

Il reato di abuso d’ufficio è stato abolito, ma ne è stato introdotto un altro, in un altro decreto, quello sulle carceri, che va a coprire quelle parti di condotta già sanzionate ove siano contraddistinte da interessi economici: un’abolizione a metà. Stessa sorte è toccata agli altri momenti asseritamente riformatori del DDL Nordio: senza poter scendere troppo nel tecnico – ma sulla difficoltà di spiegare all’opinione pubblica i tecnicismi la politica conta per poter sbandierare vittorie che tali non sono – sarà sufficiente sintetizzare che sul tema della “stretta” alle intercettazioni, così come su quello delle “maggiori garanzie” nel procedimento di applicazione delle misure cautelari personali, così come sul la stessa inappellabilità delle sentenza di assoluzione da parte del PM, la tecnica è sempre la stessa: prevedere una regola generale che limita il potere invasivo e discrezionale della magistratura, ma poi al contempo prevedere sempre una deroga alla regola, la cui applicazione dipende dal potere discrezionale della magistratura.

Un gioco di specchi di una politica intimorita, se non terrorizzata, incapace di riformare la giustizia e riportarla nel suo proprio alveo costituzionale.

Di recente mi è arrivato tra le mani un lungo scritto dattilografato, di ben nove cartelle, risalente al febbraio 1987 – pre-Tangentopoli, dunque – in cui l’allora senatore Giuliano Vassalli, che di lì a poco diventerà Ministro della Giustizia e padre del nuovo codice di procedura penale, rispondeva alle domande poste da un arguto e preparatissimo intervistatore del “Financial Times”, Torquil Dick Erikson, sullo stato della giustizia in Italia e in particolare sui contenuti della legge delega che di lì a poco avrebbe portato all’introduzione, nel 1989, del cosiddetto Nuovo codice di procedura pena le, quello convenzionalmente, ma erroneamente, definito, o meglio spacciato, come codice di stampo accusatorio.

Si tratta di un documento di straordinaria attualità, in cui Giuliano Vassalli, sentendosi più libero di parlare a un’autorevole testata straniera, piuttosto che alla stampa italiana, tratteggia il vero ruolo giocato dalla Magistratura Associata nelle e tra le istituzioni democratiche: un ruolo che non le spetta.

Alla domanda del giornalista che rilevava come fosse stata espunta dalla delega la riforma dell’ordinamento giudiziario e come questo apparisse incomprensibile a un osservatore straniero, data l’incompatibilità del sistema accusatorio “con l’immensa concentrazione di poteri giurisdizionali in un unico corpo” , Vassalli rispondeva che effettiva mente non era “molto leale” parlare di sistema accusatorio con riferimento alla legge delega, e aggiungeva: “Il nostro ordinamento giudiziario non cambierà […], non sarà possibile perché oramai quello che la magistratura ha conquistato, non lo molla più […], la magistratura ha un potere enorme, ma non solo enorme in linea di fatto, lo ha sul potere legislativo”. “Un potere”, spiega all’in credulo giornalista, “di pressione, di pressione. È il più grande gruppo di pressione, è il più forte gruppo di pressione che abbiamo conosciuto […]. Fino adesso, in quarant’anni non c’è stata una legge in materia di giustizia che non sia stata ispirata e voluta dalla magistratura, la qua le è diventata sempre più un corpo veramente corporativo”.

Spiega ancora Vassalli come questa pressione è esercitata dall’interno delle istituzioni, nel cuore del potere esecutivo: “Lei deve pensare alla cosa in linea pratica. Il Ministro della Giustizia che entra al Ministero è circondato esclusivamente da magistrati [fuori ruolo, ndr], i quali occupano tutti i posti del Ministero e non lasciano andare neanche un funzionario […], non lo lasceranno mai, saranno sempre loro. Dunque la pressione si esercita anzitutto […] da un punto di vista tecnico. Poi si esercita anche da un punto di vista politico […] perché i magistrati han no un potere di penetrazione, una capacità di convincimento, una tale coesione, da essere il più formidabile […], il più grande gruppo di pressione palese che noi abbiamo finora conosciuto in Italia […]. Bisogna fare buon viso a cattivo gioco, e attuare quel poco che si può”.

E più avanti nell’intervista, allo sconcertato giornalista, che registrava su più punti della delega come la volontà del legislatore fosse condizionata se non superata dalla volontà espressa dalla Magistratura Associata e affermava: “Però, quello che lei mi sta dicendo è che sostanzialmente il legislatore italiano […], la volontà del Parlamento non è sovrana, non si può esercitare sovranamente sull’apparato dello Stato”, Vassalli rispondeva: “È una sovranità limitata, come quella dei paesi dell’Est Europeo, è una sovranità limitata dalla magistratura, nelle questioni di giustizia, non in tutte le questioni”. E, di fronte alle espressioni di stupore del giornalista, aggiungeva: “Non esagero. È cosi. Non esagero”.