L’ESPANSIONE SENZA LIMITI DEL DIRITTO PENALE E I RISCHI PER LO STATO DI DIRITTO
L’estensione sempre più invasiva del diritto penale, che ormai occupa ogni settore della vita sociale e ogni attività (civile, politica, economica), sembra minare i principi dello stato di diritto. Che cause e soprattutto che conseguenze ha questa continua espansione? Che equilibrio deve esserci tra esigenze di difesa sociale e di sicurezza collettiva, e rispetto delle libertà fondamentali? Quale rapporto tra autorità e libertà? In altri termini, come il diritto penale deve contribuire a una società liberale e non divenire strumento di esasperata compressione delle sfere di libertà individuale?
Viviamo in un’epoca fortemente caratterizzata da una espansione senza limiti del diritto penale. Presenza fortemente invasiva, perché ogni volta che il legislatore introduce un nuovo reato, da un lato restringe le libertà di azione dei cittadini e, dall’altro, lo fa attraverso la misura più incisiva, contundente ed escludente che l’ordinamento conosce, la pena, appunto, che implica di regola anche il sacrificio della libertà personale, come accade con la pena detentiva, il carcere.
Si è così rovesciato il principio ispiratore delle democrazie libera li, secondo cui tutto ciò che non è vietato dalla legge è consentito, e ricade nelle libere scelte di azione di ogni consociato: viviamo dunque – come ha scritto un grande Maestro del diritto penale recentemente scomparso, il professor Filippo Sgubbi – nell’era del “diritto penale totale”, e le “libertà negative” sono sempre più compresse e limitate, sotto minaccia di pena.
Questi aspetti dovrebbero interessare tutti, perché in gioco – come si è appena visto – vi sono appunto le libertà e i diritti di ciascuno. E invece sembra che pochi si preoccupino dell’espansione incontrollata e ormai acromegalica del diritto penale, a cui ormai si ricorre come illusoria panacea per contrastare ogni problema sociale, o anche solo ogni “irritazione sociale”.
Questo “utilizzo consumistico” del diritto penale si è accresciuto ed esasperato negli ultimi anni, segna ti dal cosiddetto populismo penale: dove ormai costantemente si invoca la sanzione penale – da parte dei più diversi attori e partiti politici – come comodo strumento per ottenere facili consensi elettorali, rassicurandoli però attraverso una duplice, ingannevole illusione, o più esattamente attraverso una doppia finzione.
Da un lato, quando si introduce una nuova norma penale, ci si illude o si finge che si avverino gli effetti positivi – le “aspettative normative” – che quella nuova legge penale vuole perseguire: effetti che però di regola non si verificano, e restano fatalmente delusi e frustrati. Dall’altro, ci si illude o si finge che non si verifichino gli effetti negativi che ogni legge penale di regola innesca, specie sulle libertà individuali.
Basti pensare ai tassi di carcerizzazione, e alla popolazione carceraria italiana, costantemente aumentata nel corso degli anni (salvo pochi momenti di discontinuità), sino a livelli di sovraffollamento esasperati, che trasformano la detenzione in un trattamento inumano, come ebbe a rilevare la stessa Corte europea dei diritti dell’uomo ormai più di dieci anni fa: ma poco o nulla è cambiato, come testimonia dolorosamente l’emergenza crescente dei suicidi in carcere. Dovrebbe essere chiaro che lo Stato di diritto, nostro malgrado, va così morendo. Sarebbe urgente, dunque, tornare alla tradizionale idea-forza che vuole il diritto penale come extrema ratio, come ultimo ed estremo presidio attivabile da par te dello Stato, sussidiario rispetto a tutti gli altri strumenti di possibile intervento statale (civilistici, amministrativistici), e tornare al principio che vuole il sacrificio della libertà personale imposto con il carcere come rimedio estremo limitato al “minimo sacrificio necessario”, attivabile solo al cospetto di rischi effettivi e concreti per la sicurezza e per la incolumità dei singoli, per neutralizzare una pericolosità con creta che minaccia la società.
La ricerca di alternative sanzionatorie diverse dalla pena detentiva, nel XXI secolo, dovrebbe essere una priorità per tutte le forze politiche, e dovrebbe essere una questione di civiltà del diritto: ma, come sappia mo, il mainstream reclama ancora il carcere a gran voce e invoca la reclusione non come strumento di recupero del reo, ma come strumento di isolamento dal consorzio civile e come luogo di marcescenza del reo (“buttare la chiave”).
In occasione di alcuni processi contro protagonisti della politica, della cultura e dell’economia, è emerso il sospetto che la giustizia intervenga in modo arbitrario, quasi ripristinando il cosiddetto reato d’autore, per colpire idee o gruppi, anziché specifici fatti criminosi. Più in generale, l’impressione è che il valore della “certezza del diritto”, e dell’uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge penale, sia sempre meno garantito. Come difendersi da una giustizia che mira a colpire un avversario, seguendo i propri principi, se non i propri punti di vista, più che a valutare l’esistenza o meno di un crimine?
Questo secondo profilo è altrettanto cruciale per gli equilibri dello Stato di diritto. L’espansione incontrollata del diritto penale è andata, purtroppo, di pari passo con un indebolimento della certezza del diritto. Il valore della certezza è un valore primordiale per la giustizia, specie per la giustizia penale: l’illuminismo giuridico, con in testa Cesare Beccaria, invocava poche leggi penali, chiare, tassative, di uniforme applicazione, che non lasciassero spazi all’arbitrio del giudice.
Il progetto illuministico appare attualmente una sbiadita utopia, se lo si guarda dall’angolatura del diritto penale contemporaneo. Di fatto, oggi abbiamo un numero incommensurabile di reati (che nessuno è mai riuscito davvero a quantificare), troppe leggi penali contrassegnate da poca chiarezza, scarsa precisione, applicazione imprevedibile e diseguale.
La discrezionalità interpretativa del giudice rischia così di tracimare nell’arbitrio: del resto, un giudice tra molte leggi è un giudice senza legge. Questo è un profilo di grave criticità del sistema, in ogni con testo: ma ovviamente manifesta aspetti persino più inquietanti per la tenuta democratica quando il controllo di legalità viene svolto su coloro che esercitano attività politica.
Da questo punto di vista, e solo a titolo di esempio, l’attuale sistema dei reati contro la pubblica amministrazione, e in primis i reati in materia di corruzione politico amministrativa, presentano un bassissimo coefficiente di tassatività e prevedibilità (basti pensare a reati come il “traffico di influenze”, o come la “corruzione per l’esercizio della funzione”); con la conseguenza che una medesima condotta può apparire – a seconda dell’approccio e della sensibilità del singolo magi strato giudicante – talvolta neutra o persino del tutto lecita, talvolta penalmente rilevante, senza che vi sia una chiara delimitazione tra la sfera dell’agire lecito e la sfera dell’agire illecito. È chiaro che quando le leggi sono ambigue, generi che, scarsamente tassative, la valutazione giudiziale dei fatti rischia di riempirsi di valutazioni morali, volubili e variabili, a seconda dei propri convincimenti soggettivi. E non vi è ingiustizia peggiore di una applicazione della legge perpetrata, in nome della giustizia, in maniera soggettiva e arbitraria.
Nei suoi libri lei coglie come nell’applicazione della legge penale il giudice sembra sempre più condizionato da influenze esterne, segnalando come tra queste oggi occupino un posto centrale le campagne mediatiche e la spettacolarizzazione della giustizia. Quanto il processo mediatico può incidere sui di ritti dell’imputato e limitare il giusto processo? E come può il diritto penale ritrovare i requisiti di quella che Mauro Mellini chiamava “giustizia giusta”?
Quando il processo penale, invece che celebrarsi nell’aula giudiziaria, irrompe nell’arena mediatica, l’effetto è un autentico stravolgimento delle regole e dei principi di garanzia che presidiano – e devono presidiare – l’accertamento processuale.
Nell’arena mediatica infatti non ci sono regole, ogni attore è legittimato a parteciparvi, ogni contributo di opinione – anche l’opinione più a-tecnica e disinformata – può esse re brandito per caldeggiare l’una o l’altra tesi: ma nella maggior parte dei casi è la tesi accusatoria a essere supportata e fomentata dalle campagne mediatiche. La conseguenza è che viene sovvertita la prima e fondamentale garanzia del processo penale, ossia la “presunzione di innocenza”, un cardine costituzionale imprescindibile del processo penale liberale. L’indagato, nella rappresentazione mediatica e quindi nell’opinione pubblica, da “presunto innocente” diventa subito un “presunto colpevole”, se non persino un “colpevole in attesa di giudizio”: e subisce una immediata “scomunica pubblica”, una feroce capitis deminutio, tanto ustionante quanto irreversibile, dall’opinione mediatica.
Ma gli “effetti perversi” più gravosi temo che si producano sul giu dice, anche solo in una dimensione subliminale e poco avvertita, credo, dagli stessi magistrati, almeno sino a quando non abbiano avuto esperienza di una vicenda giudiziaria. Infatti, il giudice, di fronte a una determinata campagna mediatica, rischia di subire una contaminazione che comprime la sua terzietà e la sua imparzialità di giudizio, anche perché alla fine – più che decidere – dovrà “dire da che parte sta”: se sta dalla parte della pubblica opinione “colpevolista”, o se viceversa sta dalla parte di un imputato che la vox populi considera già colpevole.
L’“orizzonte di attesa” che si crea nel pubblico, infatti, considera la condanna come esito scontato, e comunque come unico esito accettabile: anche perché, aveva ragione Thomas Hobbes, la condanna assomiglia alla giustizia ben più che l’assoluzione. Quindi l’esposizione mediatica di un processo è un fattore di inquinamento molto pericoloso per la serenità di giudizio del magi strato, sinora troppo sottovalutato.
Vi è poi un aspetto persino più deteriore: perché la concorrenza tra la giustizia mediatica – molto più veloce, semplice e immediata, con la sua “scomunica pubblica” – e la giustizia istituzionale – che invece appare lenta, con i suoi tempi, tortuosa e a volte poco comprensibile con le sue regole tecniche che spesso sembrano null’altro che “cavilli” – rischia di far apparire quest’ultima una giustizia intempestiva, inaffidabile e comunque insoddisfacente. Ne consegue che il livello di fiducia dei cittadini nella giustizia istituzionale si abbassa sempre più, come del resto testimoniano recenti sondaggi che segnalano come solo il 30% circa dei cittadini ha fiducia nella giustizia: e questo è un rischio intollerabile per la stessa tenuta della democrazia.