PER UN SECONDO RINASCIMENTO DELLA GIUSTIZIA IN ITALIA
La giustizia, finalmente. Dopo decenni di gestione oligarchica, lontana da una cultura liberale, si parla del Terzo Potere in Italia con l’intenzione di riformarlo. Ed è giusto rendere al ministro Nordio ciò che gli spetta: almeno nelle intenzioni, il suo disegno di legge è un passo importante volto a sottrarre la giurisdizione a un’area grigia e fuori controllo, inquinata da condizionamenti politici appena mascherati e da pratiche spartitorie, attraversata da pulsioni corporative che hanno fatto parlare di un “partito dei giudici”.
Tuttavia, anche se il disegno andrà in porto, e già mettendo in conto le inevitabili mediazioni partitiche, si continuerà a sentire comunque l’esigenza di una riforma molto più ampia. Di una proposta complessiva cioè che serva da stimolo per il futuro, ma soprattutto che riesca a conciliare il cittadino comune con quel mondo fatto spesso di regole incomprensibili, sinora percepito come lontano e ostile.
Affidandoci a un’immagine, potremmo paragonare il progetto dell’attuale governo – compreso il suo punto centrale, cioè la separazione delle funzioni e delle carriere di giudici e pubblico ministero – alla formale apertura di un carcere in cui la giustizia sia rimasta per lungo tempo prigioniera. Perché ne esca, e cominci a camminare sulle sue gambe, è necessario imprimerle una direzione attraverso nuove vie e un dibattito pubblico.
Ed è in base a tale proposito che vede la luce il saggio Liberare la giustizia, firmato dall’avvocato e giurista Ferdinando Cionti, insieme con chi scrive queste righe. Il libro, pubblicato da Licosia, porta un sottotitolo inglese significativo, Justice Unchained, proprio per sottolineare che il sistema giudiziario deve essere liberato dal le catene che lo hanno imprigionato sinora. Questo comporta una trasformazione profonda della cultura politica e giuridica in Italia, ma anche l’indispensabile modifica di articoli della Costituzione, oltre che di leggi ordinarie.
Veniamo allora al punto fondamentale, quello della separazione delle carriere e delle funzioni tra giudici e rappresentanti della pubblica accusa. Il ragionamento di fondo è talmente semplice da poter essere compreso agevolmente da qualunque cittadino, senza complesse spiegazioni.
Non è ammissibile continuare, come oggi, a condurre processi penali in cui chi emana la sentenza – il giudice – appartiene alla stessa categoria professionale di chi accusa – il pubblico ministero – mentre il rappresentante della difesa – l’avvocato – ne è estraneo. Sarebbe come se in una qualsiasi competizione sportiva l’arbitro e i giocatori di casa fossero colleghi, mentre quelli in trasferta non lo fossero. Perché la partita sia leale, occorre che il signore con il fischietto sia, e anche appaia agli occhi del pubblico, neutrale nella contesa. Dunque, dal momento che la partita della giustizia in Italia finora si è giocata nell’altro modo, sbilanciato e impari, è giusto che la separazione tra giudici e rappresentanti dell’accusa si realizzi prima possibile. Ecco tutto. Pazienza se le parti in causa protestano, interrompono la partita, minacciano di ritirarsi dal campionato. Le esigenze superiori di un vero stato di diritto impongono che si metta rimedio a una situazione di fatto ingiustificabile.
Di fronte alla semplicità dell’enunciato era inevitabile che gli avversari del cambiamento alzassero barricate ostruzionistiche, lanciassero mozioni degli affetti riguardo ai meriti trascorsi della magistratura, e denunciassero la sacralità della Costituzione violata, annunciando addirittura scioperi sindacali, però guardandosi bene dal confrontarsi con la chiarezza del ragionamento di fondo.
Il motivo non dichiarato ma implicito di questo atteggiamento è facilmente decifrabile. I dirigenti della Anm, il sindacato dei magistrati, sanno benissimo, in cuor loro, che la difesa corporativa in cui si trincerano è insostenibile alla luce del senso comune, e priva di argomenti validi, dunque destinata a essere sconfitta. Perciò allungano tatticamente i tempi del dibattito, ricorrendo a ostruzionismi di facciata, nella speranza che i partiti storicamente loro vicini, con i quali esiste un rapporto ben consolidato di reciproci favori, riescano infine a insabbiare tutto.
Il loro castello concettuale presenta tuttavia una contraddizione decisiva. Infatti, la minaccia più grave all’indipendenza e alla credibilità della magistratura oggi non viene da un potere esterno, ma dal suo stesso funzionamento interno. Il guasto del meccanismo spartitorio è da ricercare in seno all’Anm, un sindacato con chiari fini politici, e come tale in realtà anticostituzionale. È sufficiente infatti leggerne lo statuto e, segnatamente gli articoli 2, 4 e 6, per accorgersi che si propone di influire politicamente sul le decisioni degli altri due poteri costituzionali – legislativo ed esecutivo –, cosa purtroppo verificabile quotidianamente. Inoltre, l’Anm giustifica il suo modo di agire come se fosse un sindacato uguale agli altri; e invece non le compete alcuna rivendicazione economica, poiché gli stipendi dei magistrati sono stabiliti per legge.
C’è di peggio. L’espressione più pericolosa del corporativismo pseudo sindacale appena citato consiste nel la lottizzazione delle cariche secondo le correnti politiche interne, come lo scandalo Palamara ha reso evidente. È un sistema concepito in modo che chi non vi aderisce – gli indipendenti – sia automaticamente escluso dagli incarichi importanti, in spregio del merito individuale. E ciò avviene perché l’Anm tiene in pugno di fatto il Csm, cioè l’organo di autogoverno dei magistrati, e se ne serve per legittimare il suo potere.
Liberare la giustizia propone di proibire ai giudici di aderirvi, in omaggio alla professionalità “neutrale” connessa al loro ruolo, secondo gli arti coli dal 101 al 107 della Costituzione. Cui corrispondono, del resto, privilegi unici al mondo.
È politicamente comprensibile, anche se non giustificabile, che il progetto di riforma del governo non abbia ancora osato sciogliere questo nodo decisivo. La logica dei reciproci interessi, delle inerzie connaturate al sistema politico, delle mediazioni partitiche, è evidentemente presente. Ma poiché il diavolo si nasconde nei dettagli, è importante comprendere come tutta la costruzione, se non si arriva al chiarimento, resti sospesa nel vuoto. La creazione prevista di due diversi Consigli Superiori della Magistratura, uno per i giudici e l’altra per i funzionari incaricati di rappresentare lo Stato nel ruolo di pubblica accusa, limiterebbe evidentemente la separazione tra le due categorie soltanto a quella sede. Esse invece si ritroverebbero insieme all’interno dell’Anm, cioè proprio in quell’anomalo sindacato dove si fa politica, e si nominano i componenti del Csm. Il tutto allora si risolverebbe in niente, e l’andamento della giustizia continuerebbe come prima. (Anche nel caso, ovviamente, che i Csm diventassero due).
La scomparsa dell’Associazione Nazionale Magistrati, intesa come oggi è, avrebbe anche altre positive ricadute. Permetterebbe cioè ai giudici di recuperare quella funzione professionale di neutralità prevista dalla Costituzione, e che invece è costantemente inquinata dal comune contenitore sindacale, a sua volta determinante per gli equilibri nel Csm. Infatti bisogna fare attenzione, in una situazione simile, a non scontentare un collega, dal quale si può essere poi valutati e giudicati in sede di Csm.
Anche i rappresentanti dell’accusa, in prospettiva, potrebbero avvicinar si a una migliore definizione del loro ruolo. Oggi essi sono tenuti alla finzione di “parti imparziali”, che cioè sarebbero obbligate a raccogliere prove non solo della colpevolezza, ma anche dell’innocenza dell’imputato (naturalmente a loro insindacabile giudizio). Anziché rappresentare gli interessi dello Stato, oggi essi somigliano insomma ad avvocati che, in vece di battersi esclusivamente e lealmente per provare l’innocenza del loro cliente – in questo caso appunto lo Stato –, si assumano anche il compito di dimostrarne, eventualmente, la colpevolezza.
Per superare l’attuale condizione di stallo, e realizzare un’autentica riforma anti-oligarchica e liberale, riteniamo che sia necessaria una scelta di fondo: coinvolgere i cittadini, con il voto, nelle cariche di vertice che regolano la giurisdizione. Prima fra tutte, l’elezione diretta del Procurato re Generale. Non ci sarebbe nulla di male, per la verità, se egli dipendesse dal ministro della Giustizia, come avviene in Francia. O addirittura che le due figure di ministro e procuratore coincidessero, come negli Stati Uniti. Ma ancora più garanzie democratiche ci sarebbero, sosteniamo nel nostro saggio, se il Procuratore Generale, al vertice della scala gerarchica, fosse legittimato direttamente dal voto popolare. Questo, a nostro parere, è il metodo migliore, il cui corollario è l’intesa fra ministro della Giustizia e Procuratore riguardo alla politica cri minale complessiva da seguire, una volta che sia stata decisa dal governo. Sarà così possibile finalmente eliminare il caos intollerabile di oggi: ogni singolo sostituto procuratore, inamovibile, decide la sua personale politica criminale senza dovere coordinarsi né risponderne ad alcuno (basti pensare alle opposte interpretazioni delle leggi sull’immigrazione, cui assistiamo).
Non vogliamo qui addentrarci nella discussione politologica che riguarda la democrazia diretta. Sia che a essa si voglia attribuire un carattere limitato, definendo invece democrazia indiretta quella che decide con voto popolare i titolari delle varie cariche, sia che si vogliano estendere i suoi confini a tutte le espressioni – appunto, dirette – della volontà popolare, la partecipazione dei cittadini non può che rispondere allo spirito del primo articolo della Costituzione, dove stabilisce che la sovranità risieda non nei membri delle istituzioni, ma appunto nel popolo.
Dunque, oltre all’elezione popolare del Procuratore Generale, siamo favorevoli in prospettiva anche a quella dei giudici singoli. La neutralità che dovrebbero incarnare, come abbia mo potuto constatare in occasioni fin troppo numerose, e che riassumiamo nel nostro saggio, è solo una finzione, e poggia su basi contraddittorie. Molto meglio allora, attuando l’articolo 106 della Carta, che spetti ai cittadini sceglierli, nell’ambito della loro funzione monocratica.
Il che ci porta a porre un altro interrogativo: se la neutralità è solo una finzione, sempre smentita oltre che dai fatti anche dalla stessa natura umana, perché non far valere questa constatazione anche nel caso dei giudici collegiali, da eleggersi anch’essi? Certo, in tale ipotesi, la modifica costituzionale sarebbe maggiore, e comporterebbe la cancellazione degli articoli dal 101 al 107 della Costituzione.
Sicché, l’alternativa più realistica in un paese democratico sarebbe l’istituzione delle giurie popolari, come avviene nei paesi anglosassoni, a cui va la nostra preferenza. Non più confinate come oggi nel ruolo di “partecipanti” ai processi, dove inevitabilmente vengono messe sotto tutela dai giudici professionali, ma all’opera come autentiche “amministratrici” della giustizia, tali cioè da decidere sul fatto – innocenza o colpevolezza – mentre la traduzione della sentenza in termini di diritto continuerebbe a spettare naturalmente ai giudici.
D’altra parte non dobbiamo scordarci che aumentare le garanzie di libertà è un modo per contrastare i difensori dello status quo, le posizioni di potere acquisite.
Massimalismi e giustizialismi, infatti, sono costantemente in agguato. Nel dopoguerra gli inquinamenti politici e ideologici hanno dato origine a fenomeni pericolosi, come la creazione dei “togliattini” – i funzionari comunisti immessi a ruolo nella magistratura da Togliatti nel primo dopoguerra – e in seguito ai pretori d’assalto, con la loro interpretazione “evolutiva” della legge. Per non parlare degli abusi commessi ancora dopo, in concorrenza e supplenza della politica, dai militanti di Mani Pulite. Periodi oscuri della democrazia italiana che Liberare la giustizia ripercorre passo dopo passo, cercando di suggerire rimedi e freni, affinché simili abusi non debbano ripetersi.
Non possiamo dimenticare, del resto, che fin dal dopoguerra la giustizia in Italia è stata costantemente sottoposta a una pressione doppia. Da un lato, alla concezione egemonica marxista, dall’altro al corporativismo oligarchico della categoria.
Così si spiega il ripetersi di riforme fallite e insabbiamenti. A cominciare dall’assenza di una autentica responsabilità civile dei magistrati che commettano gravi errori per dolo (cosa indubbiamente difficile da provare) o per colpa grave. Il referendum popolare che nel 1987, a stragrande maggioranza, l’aveva introdotta, è stata aggirato, consentendo che la riparazione del danno tocchi allo Stato – cioè agli stessi cittadini – e solo in un secondo tempo esso si possa rivalere sui colpevoli. Ma, com’è ovvio, all’interno della medesima categoria si ha sempre un occhio di riguardo per il collega, sicché i provvedimenti di questo tipo seguono tempi biblici, quando non cadono definitivamente nel dimenticatoio. Anche in questo caso, la semplicità del ragionamento è indizio della sua efficacia: perché mai un magistrato che commette un grave errore, infatti, dovrebbe non risponderne a nessuno, mentre un pilota di aereo, un imprenditore, un medico o un camionista che sbagliano finisco no sotto processo? La responsabilità civile – lo comprende chiunque – risponde a un principio elementare di equità.
Non è ancora tutto. Oltre a ricorda re l’urgenza di una spending review della magistratura, il nostro saggio tocca un ulteriore aspetto poco indagato: l’”occupazione”, cioè, da parte di centinaia di magistrati del ministero della giustizia. Che equivale a sovrapporre, una volta di più, potere esecutivo e giudiziario, i quali invece devono rimanere distinti. Poiché il ministro, responsabile e garante del popolo nel decidere la politica criminale, non ha il tempo e a volte nemmeno la competenza per occuparsi di ogni legge e provvedimento, egli deve potere servirsi di funzionari nei quali riponga, anche politicamente, assoluta fiducia. L’”occupazione” in somma deve finire.
L’avvio di un dibattito così vasto può segnare davvero l’avvio di un secondo rinascimento della giustizia in Italia. Per dirlo con le parole di un pensatore illustre, teorico della società aperta e nemico delle oligarchie, Karl Popper, dimostrare una verità “oggettiva” è impossibile. In ogni momento può emergere un nuovo aspetto imprevisto, tale da rivoluzionare l’interpretazione dei fatti e il relativo giudizio finale.
Il confronto, e persino lo scontro aperto delle idee, sono sempre migliori della pratica di una giustizia corporativa e non soggetta a un giudizio di merito. Affinché possa emergere una verità sempre perfezionabile, e sempre provvisoria, bisogna che i cittadini facciano sentire la propria voce.