LA CONDIZIONE DEL CIASCUNO

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psicanalista, cifrante, brainworker, presidente dell’Associazione culturale Progetto Emilia Romagna

Nel libro VII della Repubblica, Socrate invita Glaucone, il suo interlocutore, a immaginare che gli umani vi vano incatenati, fin dalla nascita, in una caverna, con un fuoco alle spalle, per cui sulle mura della caverna vedono ombre di persone e oggetti credendo che siano la realtà. Ma vi è chi, prosegue Socrate, arrampicatosi sulle rocce, è uscito dalla caverna e si è accorto che esistono il sole, le stelle, ben altro da queste ombre e da queste catene. Torna a parlarne, dà testimonianza, ma per questo viene accolto, ascoltato, ringraziato? No, viene deriso, evitato, perché appare ridicolo, goffo, e si dice di lui che “l’ascesa gli ha rovinato la vista” perché è abbagliato da quel che ha visto. Socrate prosegue, chiedendo a Glaucone, come, a quel punto, potrebbe sembrare strano “che chi passa dagli spettacoli divini alle umane miserie si comporti goffamente e appaia ridicolo, appunto perché, ancora ottenebrato, è costretto, prima di essersi ben abituato a questa oscurità, a difendersi nei tribunali e altrove dalle ombre della giustizia e dalle immagini che proiettano quelle ombre”.

Per Platone, non la giustizia, ma le ombre della giustizia, le immagini proiettate dalle ombre abitano i tribunali. E chiede se non “si direbbe di lui che l’ascesa gli ha rovinato la vista, e che non vale neppure la pena di affrontare la scalata?”. Chi vive nel regno delle ombre, chi è incatenato lo perseguita, lo mette in prigione, lo sotto pone a processo fino a giustiziarlo: “E non verrebbe ucciso chi tentasse di liberare e far salire gli altri, se coloro potessero averlo tra le mani e ucciderlo?”.

Questa giustizia sorda, conformista, vendicativa è l’ingiustizia: si accanisce contro la voce dissonante, indisponente, insopportabile. Ma perché sarebbe ingiustizia? Parodiando Pilato, Quid est justitia? La giustizia è l’utile del più forte, come dice Trasimaco a Socrate? O è quel che descrive Polemarco: “È giusto rendere a ciascuno ciò che gli è dovuto”? Nel primo caso, una questione di rapporto sociale: “superior stabat lupus”, come nella fa vola di Fedro; nel secondo, di compensazione: “tu hai dato questo, e questo ti sarà dato”. Ma abbiamo visto che cosa è dovuto a chi “fa la cosa giusta” nella Repubblica: persecuzione, galera, morte! Perché egli si attiene a qualcosa che la caverna non riesce a contenere, che non riesce a mettere in catene: si attiene alla propria esperienza e ne testimonia, non evita la parola, non crede che quel che è giusto sia quel che sta in catene. Lui non è l’eroe, non vince i processi, non ha riconoscimenti sociali: non è soggetto alle convenzioni sociali, non insegue le ombre. E Armando Verdiglione, nel libro Dio, scrive: “Non è forse il sembiante il giusto della Repubblica che viene cercato per essere flagellato, torturato, legato e con gli occhi bruciati e infine crocifisso?” (A. Verdiglione, Dio, Spirali, 1981, pag. 57).

La giustizia della caverna è ingiustizia perché non tollera il giusto. Impertinente, straniante, aberrante, il sembiante, causa e oggetto dell’identificazione, condizione dell’itinerario, non è accettato, non è ammesso, non rientra nei canoni della giustizia ordinaria e ordinale, perché quella è la giustizia delle ombre e delle catene, e guai a chi le mette in questione.

Ma di che giustizia si tratta nella giusti zia delle catene? È la giustizia del discorso. Scrive Michel Foucault: “Tranne i poeti greci del VI secolo, il discorso vero, – nel senso forte e valorizzato del termine – il discorso vero, per cui si aveva rispetto e terrore, quello al quale bisognava sotto mettersi perché regnava, era il discorso pronunciato da chi di diritto, e secondo il rituale richiesto; era il discorso che diceva la giustizia, e attribuiva a ciascuno la sua parte. Era il discorso che, profetizzando il futuro, non solo annunziava quel che stava per accadere, ma contribuiva alla sua realizzazione, comportava l’adesione degli uomini, e si tramava così con il destino” (M. Foucault, L’ordine del discorso, Einaudi, 1970, pag. 14). Il discorso che diceva la giustizia e attribuiva a ciascuno la sua parte: non la parola del giusto, ma il discorso pronunciato da chi ha diritto, i padroni della giustizia, da coloro che la detengono, che la amministrano, che la somministrano, secondo il rituale richiesto, il rituale penale e penitenziario, che annuncia quel che sta per accadere, perché è stabilito essere, la pena e la morte. Allora, come ora. E ancora, in un saggio dal titolo Col dovuto rimbalzo, Carlo Sini scrive che “l’importante era che il discorso fosse efficace”. Ma qual era il discorso efficace? “Tale discorso evocava l’assente come la voce di Dio che parla agli uomini, e pro venendo, li dispone alla giusta distanza. L’uomo è così pronto a rispondere perché chiamato nel nome degli Dei ed è disposto in una collocazione che determina le sue circostanze di morte e di vita” (C. Sini, Col dovuto rimbalzo, in AA.VV, Di segno. La giustizia del discorso, Jaka book, 1984, pag. 50). Mentre John Rawls definisce così la giustizia: “Il modo in cui le maggiori istituzioni sociali distribuiscono i doveri e i diritti fondamentali e determinano la suddivisione dei benefici della cooperazione sociale” (J. Rawls, Una teoria della giustizia, Feltrinelli, 1982, pag. 24).

Ma quando Foucault dice “A ciascuno la sua parte” e Sini parla degli uomini disposti “alla giusta distanza”, quando dicono “a ciascuno il suo”, nel senso della giustizia distributiva di Rawls, in realtà questi filosofi parlano non di ciascuno, ma di ognuno: omnis unus, cioè l’uno, tutti gli uni, l’uno tutto. Unicuique suum è l’ognuno, chi accetta la logica distributiva, chi accetta la giusta distanza, chi accetta la vita delle ombre, le giuste catene. Ma questa appunto è “la giustizia del discorso”, dice giustamente Carlo Sini, non la giustizia della parola.

Ma che cos’è allora la giustizia della parola? È la giustizia che distribuisce a ognuno, secondo il principio dell’uguale? Ogni uno è sottoposto al principio dell’uguale, è sottoposto al principio della morte, perché tutti sono mortali, ovvero ognuno è mortale. Questa è la giustizia del discorso, ed è una giustizia convincente, direbbe Tucidide rispetto al discorso di Pericle agli ateniesi, perché è una giustizia che dà a ognuno il suo, che premia i vincitori e condanna i perdenti, dunque in nome della condivisione e dell’uguaglianza, premia ognuno: chi è più uguale, chi è meno uguale, chi è più uguale degli uguali, chi è meno uguale dei meno uguali, ognuno è rappresentato in questa distribuzione. Ma questa che pare la distribuzione delle ricchezze è la distribuzione dei pesi, la compensazione, secondo il peso di ognuno. Questa è una giustizia relativa, relazionale, basata sul principio dell’uguale come principio della distribuzione della morte, “che determina le circostanze della vita e della morte”.

La giustizia del discorso è uguale per tutti? La giustizia della parola non è relazionale, attiene all’ineguale, all’anomalia, non al principio di uguaglianza, non al principio distributivo. Il principio distributivo aiuta i deboli? Forse, ma allora deve prima stabilire chi sono i deboli. Ma chi è più debole di chi si assoggetta, di un assoggettato al fato, alle oligarchie, ai prepotenti? La giustizia distributiva fonda il soggetto, che poi diventa soggetto della colpa e della pena. La giustizia della paro la, invece, è il modo di intervento non del relativo, non del comune, non dell’uguale sociale, ma dell’assoluto, dell’irrelato, del sembiante. È come lo stato, è come la moneta. Qualcosa di astratto, di non de tenibile, di non rappresentabile, ma che è condizione della vita. Nessuno detiene la moneta, nessuno può impadronirsi dello stato, nemmeno il direttore delle banche centrali o il presidente della repubblica.

Questo numero della rivista si apre con il dibattito provocato dal libro di Dario Fertilio e Ferdinando Cionti, Liberare la giustizia, che ha come sottotitolo Giustizia senza catene. La parola non può essere incatenata, non può essere distribuita, non può essere data, non può esse re concessa. Allora, un’altra giustizia, la giustizia come modo dell’assoluto, perché non relativizza e non accomuna, ma è condizione della differenza e della varietà. È condizione e garanzia dell’itinerario di ciascuno: a ciascuno la sua ricerca, a ciascuno la sua poesia, a ciascuno la sua impresa, a ciascuno la sua politica. La condizione del ciascuno è la condizione dell’itinerario, è la giustizia della parola, non del discorso: la giustizia rispetto a cui non possiamo cedere e che non possiamo ignorare, non per dovere o eroismo, ma perché è la condizione e la garanzia della nostra vita, anche se noi non lo sappiamo, anche se noi non vogliamo. Senza questa garanzia e senza questa condizione non parleremmo, non faremmo, non intraprenderemmo, nel gerundio del nostro nomadismo, vivendo. Questa giustizia è proprietà dell’individuo, cioè non è ripartibile, non è distribuibile. Quel che si può ripartire è ognuno, che può farsi in quattro, ovvero squartarsi, o in due, ovvero dividersi: è il soggetto della spartizione, è il soggetto che ha bisogno della vittima, che si fa vittima. È il soggetto del tribunale, che non si attiene alla giustizia come modo d’intervento della condizione e della garanzia dell’itinerario, ma guarda alla giustizia ideale come finalità dell’itinerario: quindi occorre giungere a giustizia, occorre porta re giustizia, occorre giustiziare i colpevoli, occorre attribuire la pena a chi merita la pena, il premio a chi merita il premio. La giustizia distributiva è la giustizia finale, non la giustizia come condizione.

Questa idea di giustizia non ha nessuna presa sulla giustizia della parola, sul giusto che fa ostacolo, sull’oggetto che obietta, ovvero, secondo l’etimo, si getta contro, non dà tregua, fino a risultare insopportabile per gli incatenati, per gli standard, per il sistema. È provocazione: specchio, con cui o non riesco a costruire una realtà in cui le cose si rispecchino nel modo in cui vorrei, in cui riconoscermi come vorrei. Ma anche sguardo, che non mi offre un punto di vista e m’impedisce la visione del mondo. E, in quanto provocazione, è anche voce, che non è la voce di Dio, che non serve all’autocoscienza o alla giusta distanza da sé, ma è la condizione del fare, del gerundio pragmatico.

Questa giustizia non procede dalle convenzioni sociali e discorsive, ma dall’equità. L’equità non rientra nell’idea di uguale, dunque non supporta la logica distributiva e compensativa, che si attiene al canone della morte, quindi al riferimento al nulla. L’equità, da cui procede l’equilibrio, è la questione aperta, è il principio di contraddizione: questa bilancia non è proprietà della giustizia che distribuisce pene. La giustizia della parola procede dalla bilancia dell’ineguale, dell’impari, dell’anomalo. Dall’equilibrio della bilancia della vita, non dallo squilibrio della bilancia del tribunale di Osiride.

Ciascuno, non ognuno, trova la sua con dizione e la sua garanzia nella giustizia procedendo da questa equità e da questo equilibrio, che non hanno da divenire equazione o sistema, mirando all’appiattimento, all’appianamento, all’adeguamento. La giustizia della parola, non del discorso, è garanzia del ciascuno, per cui impedisce che ciascuno venga giudicato, collocato, distribuito, assimilato, parificato, omologato: questa giustizia, non quel che è uguale per tutti, è garanzia del ciascuno, che è statuto nella procedura linguistica per integrazione, non nei cerimoniali per l’assimilazione. Per questo motivo è garanzia anche dello statuto civile, dove ciascuno è statuto linguistico, non sociale o professionale, statuto d’interlocutore, statuto della costruzione, statuto di qualificazione della vita.

Ciascuno dimora nella parola, ognuno sta al di qua della parola o al di là, cioè resta nel discorso ideale, nel discorso che è sempre il discorso senza la parola. Ciascuno è dispositivo della parola nel gerundio della vita, della vita in atto. Per questa via ciascuno è anche statuto delle virtù civili: la ragione e il diritto. Con ciascuno, le cose si dicono, si fanno, si scrivono, riescono, si valorizzano. Questa l’esperienza. E, facendo, interviene il tempo, per cui diritto e ragione si attengono a criteri pragmatici, non soggettivi. Importano la ragione dell’Altro, non le mie ragioni, le ragioni del soggetto, e il diritto dell’Altro, non i miei diritti, i diritti del soggetto. La ragione e il diritto della parola, non del discorso. Il diritto dell’Altro e la giustizia dell’Altro non cercano e non fanno giustizia, non applicano né amministrano la giustizia, la giustizia del sembiante è loro condizione e garanzia.

Con questa giustizia, ciascuno è statuto linguistico, pulsionale, narrativo, statuto nel dispositivo della vita originaria. Ciascuno non rientra nell’ordinamento socia le, si attiene all’esperienza, dunque alla procedura per integrazione nel viaggio in direzione del valore, si attiene all’occasione e alla partita, alla direzione della vita. E non cede al conformismo, neppure al conformismo dell’anticonformismo. Non cede alla tragedia del realismo della pena e dell’arbitrio dell’idea. Non cede fino a darsi un limite cui legarsi mani e piedi. Con ciascuno l’ombra è alle spalle, è indice dell’inconciliabilità dell’apertura.