GIOVANNI MONDINI: L’INGEGNO E LA MEMORIA IN ATTO DA TRE GENERAZIONI
Oggi la G. Mondini Spa è leader mondiale nella costruzione di macchine per l’industria del packaging alimentare. Ne ha fatta di strada dal 1972, anno in cui suo marito, Giovanni Mondini, decise di proseguire da solo l’attività che aveva avviato poco tempo prima con due soci. Che cosa lo aveva spinto a partire per quest’avventura e in che modo si è avvalso della sua collaborazione, anche se lei aveva già tre figli e un quarto in arrivo?
Gianni ha sempre pensato di avere ricevuto dal Signore il dono di una mente particolarmente lucida e ingegnosa, diceva che da soli non si fa niente, perché è il Signore che ci dà i talenti. Poi, sta a noi riuscire a individuarli e metterli a frutto. Per questo egli era sempre alla ricerca di idee, non si dava pace finché non aveva portato a compimento ciò che aveva escogitato per aumentare la qualità dei prodotti.
All’inizio i sacrifici sono stati tanti, siamo partiti in un piccolo capanno ne che ci ha affittato un’amica di sua mamma qui a Cologne. Lui era la mente e io il braccio: se lui ha potuto sviluppare tutte le sue idee, io d’altro canto tenevo la contabilità su un quaderno che conservo ancora, dove annotavo le spese amministrative, l’attivo, il passivo, che s’intrecciavano con gli eventi importanti della famiglia come, per esempio, le comunioni e le cresime dei figli. Scrivevo tutto a mano, tenevo il libro mastro con le dodici colonne, come si usava allora, e con la sedia mi spostavo a destra e a sinistra man mano che riempivo le righe del quaderno. I miei figli lo ricordano ancora, perché il mio ufficio era in casa, e a volte lavoravo con il bambino più piccolo, Paolo, in braccio. Io ho potuto aiutare mio marito perché sono cresciuta in una famiglia in cui non si doveva sprecare nulla e c’erano attenzione e cura assolute per ciascuna cosa. Ancora oggi dico spesso che è facile spendere i soldi degli altri, ma quando hai fatto sacrifici per guadagnarteli, invece, non sei così propenso nel buttarli via. E lo stesso vale per le cose: a casa tua non apri la porta spingendola con il piede e sarebbe bello che facessi la stessa cosa anche a casa degli altri.
Nella nostra attività abbiamo fatto un passo alla volta: pian piano, abbiamo comprato il terreno dove sia mo ora, poi abbiamo costruito una prima parte dell’attuale capannone e, man mano che l’azienda cresceva, l’abbiamo ampliato, ma sempre con oculatezza.
Eppure, se lo stile del capannone era quello che si vede ancora oggi, era già moderno, molto luminoso e ben curato nelle finiture…
Certo, cercavamo di non sprecare, ma non abbiamo mai risparmiato sul la qualità. Infatti, per esempio, abbia mo scelto i serramenti Capoferri, che erano molto costosi, ma altrettanto resistenti, tant’è che non abbiamo ancora avuto bisogno di cambiarli.
Quando mio marito ha incominciato ad andare in giro per il mondo a vendere le sue macchine, le tribolazioni erano tante, però le soddisfazioni non mancavano mai. Se, con una piccola impresa com’eravamo allora, lui riusciva ad avere udienza da parte di colossi del settore alimentare come la Nestlé (ricordo quando andava in Svizzera in treno), la Findus o la Star, evidentemente, le sue proposte era no molto innovative. Oggi, in questa zona ci sono altri costruttori di macchine confezionatrici, ma sono nostri ex dipendenti che si sono messi in proprio dopo avere imparato il mestiere. Sono stati bravi perché hanno avuto l’audacia di staccarsi da noi e come dice un’imprenditrice di Odolo: “Il sole brilla per tutti. L’importante è non scottarsi”, quindi noi siamo in buoni rapporti con loro, perché cia scuno nella vita ha il diritto di scegliere come correre la sua partita.
Mio marito ha sempre introdotto novità rivoluzionarie, frutto non sol tanto dei talenti che il Signore gli ha donato, ma anche della ricerca che portava avanti, prima da solo e poi confrontandosi con i tecnici che man mano entravano a far parte della nostra squadra. Quando compriamo un piatto pronto o un qualsiasi prodotto alimentare confezionato al supermercato, non immaginiamo minimamente quanta ricerca e quanto lavoro c’è dietro. Ricordo gli studi che i nostri tecnici hanno compiuto per arrivare al packaging della Robiola Osella, per esempio, o a quello dei sughi Rana, che hanno il bordo del coperchio arricciato. Un giorno, Francesco, il terzogenito di mia figlia Cristina, a proposito di un prodotto della linea Osella, mi fece notare: “Vedi, nonna, con le macchine del nonno, la linguetta per aprire la confezione si stacca bene, mentre non tutti i prodotti sono così facili da aprire”.
Anche lei però ha il suo talento: quello per la contabilità, considerando che si è occupata del controllo gestione in questi cinquant’anni e continua tuttora…
A questo proposito posso dire che sono nata in una fa miglia di nove fratelli (io sono la terza) e ancora adesso devo ringraziare mia madre, donna umile, che ha saputo cogliere in ciascuno di noi l’attitudine che gli era propria sin da bambini. Mia madre, Caterina, è vissuta fino a 103 anni. Quando frequentavo ancora le scuole elementari, mi aveva incaricato di tenere i conti sul libretto della spesa che facevamo dal fornaio e dal droghiere. In quel piccolo libretto blu registravo i movimenti di una linea di credito che i negozianti ci concedevano perché il mio papà, Costantino Chiari, e lo zio Ugo avevano tanto lavoro, poiché era no stati i primi ad avere i trattori per arare i campi. Io facevo i conti, a fine pagina segnavo il totale e lo riporta vo nella pagina successiva. E la stessa cosa facevo in azienda quando tenevo lo scadenzario dei fornitori: non c’era il computer, perciò, facevo i conti proprio come quando ero bambina.
La mamma aveva intuito quale fosse il talento specifico di ciascun figlio. Per esempio, aveva capito l’amore per la tecnica di mio fratello Patrizio, il quale, dopo il diploma all’istituto tecnico, ha lavorato da noi come capo officina e sta proseguendo tuttora. In terza media ci avevano assegnato il tema Cosa farai da grande? e io avevo scritto che sognavo di essere dietro a un tavolo coperto di quaderni e facevo conti su conti. Uno di questi quaderni, che ho fatto vedere ai miei nipoti, adesso lo tengo sul comodino. Quando abbiamo ristrutturato gli uffici, mi hanno chiesto di scegliere una scrivania: “Ma io voglio un bel tavolo, non una scrivania”, ho risposto prontamente. Era il tavolo che immaginavo da piccola.
Questa è la memoria in atto nell’esperienza…
Ogni tanto ascolto la voce registrata della mia mamma, che a 103 anni recitava ancora le poesie e le filastrocche. Che memoria! Erano le filastrocche che ci cantava quando eravamo bambini, in camera, mentre sui vetri si formavano i ricami per il freddo, o accanto al camino. Io sono del 1940 e il freddo allora si faceva sentire tanto.
A volte, mi tornano in mente scene della mia infanzia, quando con mia sorella Ida andavamo alla Seriola che scorreva di fronte casa nostra a risciacquare i panni. Andavamo con la carriola e ricordo che la mamma c’indicava di mettere sotto i panni scuri e sopra quelli chiari, in modo che il colore dei primi non macchiasse i secondi, colando verso il basso. Pensi com’era avanti la mia mamma: non aveva bisogno dell’Acchiappacolori.
La storia della vostra azienda s’intreccia con quella della famiglia...
Infatti, mia figlia Cristina, per esempio, non appena ha incominciato a studiare le lingue all’università, ha cominciato a seguire il papà quando andava in fiera o dai clienti per fare da. Inoltre, ricordo che la sera stavamo su fino a tardi a lavorare con il telex: io scrivevo e lei traduceva. Quanto lavoro.
E, poi, anche gli altri figli, man mano che sono cresciuti, hanno scelto tutti e quattro facoltà che consentivano loro di lavorare in azienda e ricordo che dicevo spesso a Gianni: “Quando entrano, vedrai che pian piano trovano il loro percorso”. L’unica che non è qui a lavorare, ma collabora da casa, è Melisenda. Gli altri sono sempre qui sul pezzo: Cristina e Paolo seguono le vendite (abbiamo tanti venditori, però ci vuole chi coordina) e Nazareno segue la produzione. Insieme ci adoperiamo per mandare avanti la nostra azienda, che è cresciuta tanto in questi cinquant’anni. Anche se a ciascuno di noi manca molto il nostro “Sole” (come chiamavo Gianni) e ci manca la possibilità, quando qualcosa non va, di andare nel suo ufficio a parlare con lui, che ci dava luce, idee e l’entusiasmo per affrontare qualsiasi difficoltà, rilancia re e proseguire, senza abbattersi mai.
Adesso l’entusiasmo lo trovate nella memoria, che non si cancella...
Certo. E lo troviamo anche grazie ai giovani, alla terza generazione che è incominciata a entrare con Marco, il primogenito di Cristina, al quale ho raccomandato spesso di cercare di capire da solo quale fosse effettivamente la sua vocazione: non è scontato per un giovane collaborare nell’azienda di famiglia, anche perché Marco, come suo zio Paolo, ha studiato ingegneria aerospaziale, non meccanica. E, allora, ogni tanto gli ripeto ciò che dicevo a suo zio: “Vabbè, vorrà dire che metterai le ali alle macchine”.