L’INTELLIGENZA ARTIFICIALE SENZA PAURE E PREGIUDIZI

Qualifiche dell'autore: 
psicanalista, cifrante, presidente dell’Associazione culturale Progetto Emilia Romagna

Le paure suscitate dall’AI, che sono anche fonte dei pregiudizi nei suoi confronti, possono essere riassunte nell’idea che essa possa danneggiare l’uomo: toglie lavoro, facilita la manipolazione, minaccia la privacy, manca di trasparenza. Ma in questo convegno, L’intelligenza artificiale. Cambierà tutto? (Bologna, 13 gennaio 2024), abbiamo sentito anche come queste paure possano essere, se non tolte, quanto meno alleviate da un affinamento di normative e di tecnologie. E vi è chi, come il francescano Paolo Benanti, fresco presidente della Commissione sull’intelligenza artificiale per l’informazione, giunge a minimizzare: spetta a noi il suo controllo, dice, e, come è stato con l’invenzione della stampa, dipende da come e da chi la gestisce.

È vero, ma non è così semplice. Perché la questione sta proprio qui: fino a che punto e fino a quando la gestiremo noi? Qui si incunea la paura più radicale: con buona pace di Benanti, con la macchina da stampa i testi sono stati scritti da noi, anche se è cambiato il mezzo con cui scrivere; ma che succede quando, per riprendere il suo esempio, è Chat GPT, la macchina da stampa, anziché noi, a scrivere i testi? Qui è cambiato l’autore. E che succede se il mezzo, finora controllato, una volta divenuto più intelligente, più veloce e più produttivo, sfugge di mano, come gli automi di cui parla Platone, o addirittura prende il controllo sul controllante, l’intelligenza umana?

Più veloce e più produttiva di quella umana l’intelligenza del computer AI lo è già, ormai. La questione sta allora nel terzo termine, “più intelligente”: siamo certi di esserlo ancora noi, e fino a quando? Da qui l’importanza della questione: cosa si intende per intelligenza? Per i dizionari, l’intelligenza è la facoltà di conoscere, di prevedere, di intendere e di gestire le cose e le situazioni. E che questa sia collegata con il linguaggio e la parola ce lo dimostrerebbe il fatto che più gli esseri viventi sono avanzati nelle forme simbolico/linguistiche più sarebbero coscienti, conoscenti, previdenti, perciò intelligenti. Dunque, ci dicono, più sappiamo gestire la parola, e ciò che da essa dipende (le relazioni, i simboli, le situazioni), più siamo intelligenti. E in effetti, che cos’è la logica stabilita da Aristotele, che ancor oggi ci dice come pensare per essere intelligenti, se non una serie di principi (come quelli di identità, di non contraddizione e del terzo escluso, tuttora in auge) per gestire e dominare la parola? E cos’era la characteristica universalis di Gottfried Leibnitz, se non la possibilità di tradurre ogni conversazione umana in una serie di equazioni? E che dire delle neuroscienze, che trattano l’intelligenza come un sistema di calcoli e di inferenze logiche? Se l’intelligenza cosiddetta umana fosse solo tutto ciò, fosse solo conoscenza (che è la cum-scientia, la scienza comune), previsione, gestione, e fosse riducibile a algoritmi, per quanto complessissimi, sarebbe appropriato temere che un giorno quella cosiddetta artificiale possa superarla e dunque dominarla, come avviene tra le specie, in cui la più intelligente prevale sulle altre.

Non c’è dubbio: se l’intelligenza è pensata come un insieme di elementi algebrici, formali, relazionali, l’intelligenza tecnologica è intelligenza. Ma allora sarebbe come quella cosiddetta umana? È qui la questione essenziale: lo sarebbe solo se l’intelligenza cosiddetta umana fosse riducibile a processi deduttivi e induttivi, a logaritmi, a formalizzazioni, in breve, fosse riducibile al linguaggio e alla parola come è stata pensata dalla filosofia in questi tremila anni: una tecnica di dominio.

Allora voi capite che la chance dell’intelligenza artificiale è che ci obbliga a trovare un altro modo di intendere l’intelligenza e, con essa, la parola. Quale altro modo? Già nel Rinascimento, per Leonardo, la parola e l’intelligenza non erano tributarie della filosofia greca e dell’algebra araba, da cui deriva l’algoritmo: Leonardo scrive in più punti che quel che conta è l’esperienza, non la conoscenza degli umanisti, non i principi di Aristotele. Mentre Giambattista Vico più tardi scriverà che la scienza si fa di “universali fantastici”, non delle “idee chiare e distinte” del cogito cartesiano.

Poi, dopo le due Riforme, si apre una breccia con Sigmund Freud, quando inventa quella che chiama “la cura della parola”. Parola, non logica o conoscenza: con lui importano il lapsus, il disturbo, la sbadataggine, cioè quel che si dice, quel che sfugge al nostro dominio, non quel che si pensa o che si vuole o di cui si ha coscienza. È ciò che egli chiamava inconscio e che gli fa dire: “L’io non è padrone in casa propria”. Con l’inconscio, con l’accento posto sulla parola, è minata l’idea di dominio, di padronanza e di possessione, di coscienza e di consapevolezza. Da allora l’intelligenza non è naturale, già data, misurabile: l’idea interviene parlando, non è la parola a dipendere dall’idea.

Occorreva la cifrematica, la scienza della parola, per indicare che l’intelligenza è sempre artificiale, è un artificio della parola. Non è naturale, l’intelligenza, e del resto che cosa è naturale? Quel che è presunto naturale, come il linguaggio e l’intelligenza, in realtà è una costruzione di filosofi, da Aristotele a Jean-Jacques Rousseau, dunque una convenzione, ormai obsoleta. Anche la natura stessa, con Leonardo, è artificiale: egli parla di “artifiziosa natura”. L’intelligenza non è convenzionale, è artificio della parola e della sua poesia (nel senso di poieo, che in greco indicava il fare), dunque artificio del pragma della parola. Artificiale viene da artificio, ovvero, secondo l’etimo, arte del fare. L’intelligenza non è una facoltà umana, e non è mai naturale, dunque convenzionale: in quanto artificiale, arte del fare, arte pragmatica, la nostra intelligenza non dipende dalla conoscenza, e tantomeno dall’intesa, ovvero dalla conoscenza condivisa. Come arte del fare, partecipa dell’esperienza, per questo non è innata, come vi partecipa la cultura del fare, la formazione.

Solo se dipendesse dalla conoscenza, solo se fosse programmata da un padrone, l’intelligenza potrebbe sfuggirgli, per poi diventare padrone del padrone: questo rende favolistiche le paure che le macchine possano comandare la parola. Perché con l’inconscio, con la particolarità di ciascuno, non è possibile nessun dominio o comando sulla parola, dunque sull’intelligenza, né da parte dell’uomo né da parte della macchina.

Ma se è arte del fare, se è artificio, come definire questa intelligenza non sottoposta né al soggetto né alla macchina? È interessante a questo proposito l’annotazione di Armando Verdiglione, che la definisce “arte del malinteso indissipabile”: parla di arte, come dicevamo, ma anche di malinteso. Questo “malinteso” non allude al fraintendimento, ma vale a indicare che l’intelligenza non si attiene al canone dell’intesa, dunque al canone della condivisione e della conoscenza, non si attiene al canone dell’unico e dell’uguale (alla formulazione aristotelica “uno è uguale a uno”), ma esige l’ineguale, l’anomalo, il differente da sé. Per questo lo sbaglio di conto, la sbadataggine, l’errore di calcolo sono le basi delle invenzioni e delle arti, tra cui l’intelligenza. L’intelligenza non si attiene all’unità, al sistema algebrico o geometrico, per questo non è determinata dalle macchine e dalle tecniche, nemmeno da quelle che si basano sul principio d’indeterminazione. Per questo è bandita dai regimi in occidente, ma anche in oriente. Come indica il Tao nel tanto celebrato libro Zhuangzi: “Calmate il vostro cuore; purificate la vostra anima; liberatevi della vostra intelligenza”. In breve, robotizzatevi.

Dagli anni cinquanta in poi, si è sostenuto che non può esserci intelligenza senza coscienza. Ma alla base dell’idea di coscienza, che sarebbe specifica degli umani e non dell’AI, vi è quell’idea di padronanza e di dominio, che è l’idea di sé. La coscienza è una sottospecie della conoscenza: “Io mi conosco, io sono così, io penso così”. Ma l’idea di sé, l’autoidentità, che è idea unitaria, risulta impossibile dicendo, facendo, scrivendo, sarebbe la somma delle nostre limitazioni, paralizzerebbe la nostra vita, la penalizzerebbe. L’idea di sé è mortale. Per questo la coscienza è coscienza di colpa o di debito rispetto a un’idea di sé o un’idea del fare, e trae con sé l’idea di pena e di morte, della morte come pena. Di cosa sarebbero coscienti gli umani, se non della possibilità di morire? Per questo nessuna coscienza senza l’idea di conoscenza, che è conoscenza della vita e della morte, come indicano le tentazioni bibliche, da quella di Eva a quella di Cristo: sarai immortale, non morirai. Per questo l’intelligenza, secondo i cultori della conoscenza, come i cosmisti e i transumanisti, per esempio Raymond Kurzweil, mirerebbe all’immortalità, alla morte della morte. Ma questa non è l’intelligenza, è la tentazione demonologica della conoscenza, conoscenza faustiana, romantica, che nega la vita negando la morte, che teme la morte perché teme la vita.

In quanto artificiale, l’intelligenza secondo la cifrematica, non secondo la filosofia occidentale divenuta luogo comune, non sta nella coscienza e nella conoscenza: è pragmatica, poetica, non programmabile, ignora la morte, come scriveva Freud a proposito dell’inconscio. Solo se l’intelligenza dovesse attenersi ai dati immessi, al canone dell’uguale, potremmo chiederci se è conforme a essi, se sta lavorando con coscienza, in modo coscienzioso, se si attiene al linguaggio, un linguaggio ideale, formalizzato, senza l’atto di parola. In questo senso possiamo dire che Chat GPT e altre chatbot sono coscienti e che, con buona pace di John Searle e di Federico Faggin, hanno una coscienza: come ciascuna coscienza, si attengono ai loro programmi, coscienziosamente. E sono consapevoli? Certo, al punto che si accorgono se sbagliano e che correggono i propri errori, accettando le confutazioni come il soggetto della conoscenza di Karl Popper.

Ma, se la parola è libera, non sottostà al soggetto e l’uomo non è definito dalla coscienza o dall’autocoscienza. Si usano Chat GPT per i testi o Dall-E per le immagini perché sono utensili. Diversamente da noi, come dicevamo, hanno coscienza, e tante facoltà. Si dice: “Ma non hanno la facoltà dell’intelligenza”; però neanche noi abbiamo la facoltà dell’intelligenza, se l’intelligenza non è né del soggetto né della macchina, ma è intellettuale, è un’arte nella parola che nessuno possiede e padroneggia, un artificio, un’arte del fare e non una facoltà, una propria possibilità o una facilità.