SIAMO NOI GLI ALLENATORI DELL’AI
Gran parte dei giudizi negativi sull’intelligenza artificiale derivano da un suo uso superficiale o inappropriato: spesso Chat GPT e altre AI sono considerate e trattate come un semplice motore di ricerca. Per ottenere risultati di valore, è fondamentale formulare richieste precise e dettagliate, dimostrando competenza linguistica, capacità di analisi critica e pensiero lungimirante nella creazione dei prompt. Potremmo paragonare questo processo alla ricchezza del vocabolario: più parole si conoscono, più pensieri si possono esprimere e collegare tra loro.
È importate non accontentarsi del primo risultato fornito dall’AI, ma di guidarla ulteriormente con nuove iterazioni. E allora si pone una considerazione: se non so nulla a proposito di una questione che le pongo, come faccio a prendere per buona una risposta e valutarne il suo contenuto? E come faccio anche a proseguire con essa la “conversazione” per guidarla meglio e comunicarle le mie necessità particolari? Per esempio, se non conosco l’inglese e chiedo una traduzione, come posso giudicare se il lavoro è fatto bene e fornire nuovi input?
Come ho constatato nella mia attività di consulente di intelligenza artificiale per le aziende, occorre dunque un cambio di paradigma: invece di vedere l’AI come un’entità onnisciente che tutto può risolvere, dovremmo considerarci piuttosto noi come “allenatori” che formano l’AI nel contesto specifico del nostro workflow e della nostra logica particolare. Le abilità comunicative dell’utente, il suo forwardthinking, la sua capacità di declinare un argomento in un modo piuttosto che in un altro (avendo imparato a intendere la lingua dell’interlocutore, in questo caso, la logica particolare della macchina), diventano skills fondamentali per sfruttare appieno le potenzialità dell’AI. Per sottolineare questo scarto, questo cambio di approccio e di forma mentis, durante molti miei corsi, lancio spesso questa provocazione intellettuale: “Non è tanto verso l’AI che dovete esigere e pretendere; è in primis da voi stessi che deve partire questa necessità/occorrenza. Se non dai il meglio, non ti torna il meglio”.
Si sente inoltre spesso dire che L’AI non è “vera intelligenza” e che l’intelligenza artificiale non sarà mai come quella umana (biologica). Nel dibattito contemporaneo, infatti, questi due concetti vengono messi in totale contrapposizione, ma questa è una falsa dicotomia in quanto l’intelligenza è sempre artificiale. Se consideriamo l’etimologia della parola “artificiale” (dal latino artificialis, combinazione di ars, arte, e facere, fare), scopriamo che “artificiale” significa “fatto con abilità o arte”. Questo ci porta a riflettere: non è forse l’intelligenza umana anch’essa un prodotto dell’arte del fare? E aggiungo: del resto, non è stata la nostra “arte del fare” che ha creato l’AI?
Durante un convegno, ho mostrato una serie di immagini, alcune delle quali generate dall’AI, chiedendo ai presenti di individuare quelle “false” per alzata di mano. In realtà, solo due delle immagini mostrate erano “vere”; eppure, la maggioranza del pubblico ha giudicato proprio queste due come le più false. Questo esperimento ha avuto lo scopo di evidenziare un punto fondamentale: oggi siamo ormai così abituati a vedere immagini già di per sé così ritoccate e considerarle “vere” che, a volte, il confine tra “rea[1]le” e non diventa praticamente indistinguibile. Ciò che percepiamo come “vero” è spesso comunque il risultato di elaborazioni digitali, di modifiche, di “arte del fare”, di un artifizio, appunto.