LA QUESTIONE UOMO E L’INTELLIGENZA ARTIFICIALE
I bambini palestinesi feriti ostentati da Hamas, l’attivista italiana in ceppi e manette in Ungheria, gli studenti colpiti dalle cariche della polizia, e tanto altro. Oggi, con i vecchi media e le nuove tecnologie, va in scena lo spettacolo dell’umanità, la “questione dell’uomo”: l’uomo è tornato protagonista dell’imago mundi, ma in quanto disperato, fragile, sofferente, moribondo, annichilito. Ecce homo: questa la condizione tragica dell’uomo, siamo tutti noi questo uomo vittima degli altri uomini, questo uomo che muore, e che tutti dobbiamo compiangere, in una sorta di empatia totale e unificante. E non solo noi siamo vittime, lo è tutto il mondo: il mondo che, tolto il cosmo e le galassie, è il pianeta stesso che muore, in balia dell’apocalitticismo e del messianismo, è il mondo in balia della fine della fine.
Quest’uomo (soprattutto quello europeo), la cui scienza starebbe fallendo, la cui me moria andrebbe cancellata, le cui arti e invenzioni non varrebbero nulla, la cui intelligenza sarebbe sopraffatta, quest’uomo si starebbe distruggendo, bruciando, spegnendo, incenerendo. Lui e la sua gioventù. Ma a quest’uomo che muore l’apocalitticismo e il messianismo hanno dato una chance: risorgere, rinascere dalle ceneri, come novella fenice. E non a caso il cosmismo offre le basi per la soluzione: iberniamolo con la criogenia, quando le tecnologie saranno adeguate verrà risvegliato. Questa cultura del risveglio è lo wokismo di marca ortodossa. D’altro canto quest’homomortalis diventa homo immortalis grazie alle tecnologie: corpi artificiali, uploading della mente. Questo è il modello del transumanesimo americano, con il suo puritanesimo, che contrappone al rinascimento la rinascita, alla generazione la rigenerazione, all’educazione la rieducazione.
Quest’uomo rinato, rigenerato, rieducato, l’uomo che segue alla morte dell’uomo, è l’uomo artificiale. Quest’uomo ideale è un uomo spirituale, che non ha più bisogno del corpo mortale, che dunque annuncia la possibilità della sconfitta della morte. È l’uomo dell’Unico, dell’unità, dell’identità: è l’uomo senza la parola, senza la differenza, senza la vita. Il post-uomo. Così, abolita la generatio cui accenna Lucrezio, la generazione della vita che dipende dal fare e non dallo spirito – e dunque dalla poesia, dall’impresa e dalla politica di ciascuno, come scrivo nel numero precedente di questa rivista –, resta il gender: con il riferimento all’Unico ideale, i generi sono fluidi, sono mille, come dicevano già negli anni sessanta, a proposito dei sessi, i filosofi Gilles Deleuze e Felix Guattari. E all’ideologia che propugna una fluidità dei sessi e dei generi non vale contrapporre un’identità sessuale naturale: bisognerebbe prima capire che cosa è naturale. Ma basta leggere La generazione degli animali di Aristotele per capire che da allora quel che è presunto naturale è convenzionale, e che ciascuna convenzione si propone come naturale.
Come indica il titolo di questo numero del la nostra rivista, l’uomo non è artificiale, e non perché sia naturale, ma perché non è disposto all’identità e alla sua parcellizzazione, dunque non è plagiarius né autophagus, perché non si influenza e non si autodivora, come voleva Thomas Hobbes quando lo definiva lupus. Non si fa modello di uguaglianza e dunque supporto delle diversità, tanto meno delle alternative sociali buono/cattivo, giusto/ sbagliato. Per questo non è sancito dalla “legge morale dentro di sé”, come vorrebbe Kant: la “questione uomo” indica come l’etica con è collettiva, sociale, spirituale. L’uomo non è chi padroneggia la parola, non è chi ne ha la facoltà, in una contrapposizione con gli animali. La questione uomo è questione nella parola e della parola, è la questione del significante che non è identico a sé, la questione della frase che non si lascia disciplinare, regolamenta re, per cui l’etica non è morale. Con la questione uomo, l’uomo non è “l’essere parlante” di Martin Heidegger o il “parlante natìo” di Noam Chomsky, non è un animale, seppur “politico”, come per Aristotele, e non ha bisogno di divinizzarsi, come esige Pierre Teilhard de Chardin con il suo “Cristo cosmico”. Con la questione uomo non c’è più homomortalis/homo immortalis: la nascita non è rinascita, la generazione non è rigenerazione, l’educazione non è rigenerazione. Con la questione uomo non abbiamo più bisogno di metterci in croce né di bere la cicuta, di diventare polvere per essere scagliati nel nulla, dopo l’ultima morte. Come scrive Armando Verdiglione nel libro L’inno della vita. Il fiore e la stella, di prossima pubblicazione: “Con la questione uomo, voi non avete bisogno di morire per vivere e di vivere per morire, non avete bisogno di rimemorare per commemorare e di commemorare per rimemorare, non avete bisogno di distruggere per costruire e di costruire per distruggere, non avete bisogno di ri scrivere la vostra vita dandovi il colpo di grazia”. Con la questione uomo, l’uomo non è umano, non supporta la dicotomia naturale/artificiale che sarebbe il criterio per distinguere l’intelligenza umana da quella artificiale. Chat GTP, MidJourney, DALL-E: le intelligenze artificiali sembra no ormai avere superato, in molti ambiti, le capacità e i talenti di quella umana, suscitando la minaccia o la promessa che, a breve, possano sostituirla. Come se l’intelligenza cosiddetta umana fosse naturale, e per questo limitata, rispetto a quella artificiale, ritenuta sopra-naturale, soprattutto ora, che sembra superare l’uomo anche in quella che è presunta la sua facoltà per eccellenza, quella della parola. Eppure, notavamo già nel numero della nostra rivista intitolata L’arte del fare (n. 106, dicembre 2023) che questa dicotomia tra naturale e artificiale è ideologica e che già Leonardo parlava di “artifiziosa natura”, quasi a sottolineare di quali invenzioni e arti, tutt’altro che naturali, fosse pervasa la natura stessa. Lo sottolinea l’etimo di artificiale, “arte del fare”: nulla di lezioso, fasullo, subdolo in quel che è artificiale, e non c’è intelligenza che non sia artificiale, cioè arte del fare, arte pragmatica, arte industriale.
Nella parola che non è riducibile alla facoltà di parlare, nell’atto di parola, molte sono le arti del fare: l’arte del malinteso, l’arte del silenzio, l’arte del calcolo, l’arte della quantità, l’arte dell’ascolto, l’arte della vendita, l’arte della piegatura. E tra queste arti del fare, l’intelligenza viene definita da Verdiglione proprio “arte del malinteso”: altra cosa rispetto al senso comune, secondo cui l’intelligenza non sarebbe un’arte, ma una facoltà, la facoltà di intendere e, dunque, di volere. Per questo, secondo il luogo comune, l’intelligenza poggerebbe sulla coscienza e sulla sua variante, la conoscenza, essenziali per l’intesa, tra sé e sé e tra sé e gli altri. Per questo, l’intesa è spirituale, come l’empatia.
Eppure, che cosa, più dell’arte, indica che si intende per via di malinteso, anziché d’intesa, e che l’intelligenza va ben oltre quel che si è inteso? L’intesa è sorda, facile, complice; l’intelligenza esige il suono del malinteso, dunque l’ascolto, che non accomuna, che non sottostà alla mentalità. Questo ascolto non è passivo né attivo, esige il rischio e la scommessa del fare, che non accomunano. Per questo motivo, l’ascolto non può prescindere dalla mente: la mente è, secondo il sanscrito màtis e il greco métis, misura, divisione, per cui non offre supporto alla menzogna comune, come potremmo definire la mentalità. Non a caso métis in Grecia era l’intelligenza pratica, l’astuzia, altra cosa dal pensiero come logos. Della métis, dell’intelligenza senza rispetto e senza compromesso, si avvale Ulisse nell’Odissea per sconfiggere il ciclope Polifemo.
La mente non è la sostanza pensante di Cartesio, non serve a misurare il tempo, come crede Immanuel Kant: marca semmai l’insostanzialità del pensiero e l’immisurabilità del tempo. A torto, dunque, c’è chi accosta cervello e mente, come se la mente fosse il prodotto dell’attività del cervello presunto organico, quello che fa il cervello, come dice Marvin Minsky, oppure c’è chi considera, come Terrence Deacon, la mente come attività emergenziale del cervello. Come poter fare, come vorrebbero i transumanisti, l’uploading della mente in un cervello artificiale, presunto una massa quasi infinita di byte?
Questa dicotomia tra cervello e mente presuppone che il cervello sia un organo fisico e la mente un organo spirituale. Ma il cervello sta nella testa? O è prerogativa di chi sta alla testa, magari dell’azienda? I racconti degli imprenditori in questo numero testimoniano come il cervello e la mente non sono nel capo o del capo dell’azienda, ma nemmeno sono diffusi nell’azienda, come vorrebbe Peter Senge, teorico del “cervello diffuso”, o Jean François Noubel con la sua “intelligenza collettiva”. Il cervello non è localizzabile perché è della parola, è dispositivo della parola, non è umano né sovrumano né post-umano. Il cervello non è prima della parola, non è organizzato gerarchicamente come dovrebbe essere l’impresa di cervello, che è l’impresa senza cervello; parlando, ricercando facendo, cioè nel gerundio della parola, il cervello come dispositivo della parola è dispositivo di direzione nel pro cesso linguistico narrativo dell’azienda, interviene nella struttura della ricerca, dunque dell’economia, e nella struttura del fare, nella finanza. È cervello della sintassi, della frase e del pragma dell’azienda, è il dispositivo che non prescinde dall’audacia e dal rischio.
Il cervello, la mente e l’intelligenza non
sono prerogative dell’uomo (per questo è discutibile la formulazione
“intelligenza umana”), ma esigono la questione uomo. Esigono che l’etica non si
risolva in mora le, per esempio, nella morale dello schiavo o nella morale
della vittima, che comportano che uno sia uno, che sia uguale a sé. Se uno è
uno, se il figlio è figlio, viene tolto l’alter filius, il frater, e l’uomo divora
l’uomo, e l’uomo è bisognoso dell’uomo. Ecco la necessità dell’aiuto, ecco la umma, ecco la fratellanza di spirito, in cui il frater tenta di localizzarsi nel tempo e
nell’Altro, abolendo il tempo e l’Altro. Senza il tempo e l’Altro
l’intelligenza artificiale è presa nell’algoritmo algebrico e nell’algoritmo
geometrico, dunque è al netto dell’intelligenza, e in balia dell’inclusione e
dell’empatia.
Ma con il gerundio della vita non c’è il luogo del tempo e il luogo dell’Altro che possa fondare l’homoartificialis. L’homoartificialis che sarebbe l’uomo ideale, il soggetto della morte, che avrebbe la coscienza come vettore delle categorie dell’uguale e delle modalità della volontà. Ma l’intelligenza non ha bisogno della coscienza e della volontà, e questo uomo ideale è fatuo, non può essere un antidoto all’industria della parola, dunque alle arti e alle invenzioni, lungo la corda e il filo del suono.