DA GRANDE VOGLIO FARE L’ELON MUSK

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Qualifiche dell'autore: 
scrittore, docente di lettere alle scuole superiori, autore di vari libri fra cui "Confessioni di un NEET" (Fazi editore)

Mi fa piacere quando qualcuno mi dice che ha trovato delle risposte nel mio libro Confessioni di un NEET (Fazi editore), perché giuro che non ce le ho messe. Quando l’ho scritto volevo suscitare qualche riflessione in chi per ventura si fosse trovato a leggerlo. Il materiale per scriverlo mi è stato dato dalla mia esperienza d’insegnante. Per un po’ di anni ho lavorato in un istituto serale, dove “recuperavo” i NEET dal loro periodo di “vacanza”, nel senso ampio del termine, di questo mo mento in cui si sono trovati a errare per la società senza avere una meta. Ho ascoltato le loro storie, i loro desideri e le loro paure. Ma parlare di NEET è improprio, perché sono una categoria, per dir così, molto eterogenea: va dal ragazzino che a quindici anni trova “il lavoretto” e pensa bene di abbandonare la scuola perché non serve – poi “il lavoretto” lo perde e rimane in un limbo – all’universitario che dopo due o tre stage non retribuiti dice: “Il sistema non mi permette di andare oltre”, e smette di cercare. I NEET sono un gruppo nutrito di persone che non ha coscienza di essere un gruppo, di essere una massa e, talvolta, rientra a scuola.

So quanto disagio c’è dietro queste storie, non soltanto il disagio del singolo, ma anche quello di una fami glia che si trova spesso con difficoltà a gestirlo. Quando, poi, ancora più spesso questi giovani si emarginano non solo dalla ricerca del lavoro, ma anche dalla società, il disagio diventa doppio: ci sono problemi di tipo psicologico e relazionale molto importanti.

Nel libro ho costruito la caricatura di un personaggio, una maschera grottesca a cui però mi piacerebbe che il lettore si avvicinasse, riconoscendosi. Scrivendo il libro, mi è capitato più volte di dire: “Questa cosa la sto esagerando, ma la penso e, comunque, se non la penso io, la pensa il mio vicino di casa o il mio amico”. È un personaggio eccessivo, che però va a ingaggiare un colletto re, un gioco di riconoscimento che dovrebbe stimolare qualche riflessione. Un personaggio che dice: “Bene, io mi tolgo fuori dal sistema, perché il sistema non mi piace”.

Mi sono anche “divertito” a denunciare le storture, le cose che non vanno, le contraddizioni che vive chi cerca un lavoro. Lavorare non vuol dire soltanto riuscire a mettere insieme il pranzo con la cena, ma è anche un modo per definire la pro pria “identità” e disegnare il proprio futuro. Questo personaggio, invece, ha dei dubbi che sia proprio così: il lavoro lascia spazio a noi, alle nostre passioni, ai nostri interessi? Allora, si chiede: “Io devo dedicare la mia vita per fare arricchire un altro?”. Assolutamente no, anche perché i giovani di oggi hanno una possibilità che quelli di altre epoche non avevano: essere mantenuti dai genitori. Era un problema che aveva qualche rampollo della nobiltà che si faceva il Gran Tour in Italia, nel Settecento. Oggi, invece, ci troviamo di fronte a una sfera familiare che è molto protettiva e la fuga dal lavoro può essere data anche da questo, non solo, ma anche da questo.

Già parlare di giovani è difficile, perché non si può generalizzare, ma anche parlare di imprese in generale non è facile. Ho detto che il protagonista è qualcuno che porta all’estremo le cose, è una caricatura grottesca e deformata. Certo, io mi auguro che il tipo di aziendina con il paron che lui incontra, pian piano, si estingua, ma non è ancora estinta. E lì le condizioni di lavoro non sono quelle delle aziende di cui abbiano ascoltato le testimonianze in questo convegno, I giovani e le imprese dell’avvenire (Modena, 23 novembre 2023).

Per quanto riguarda i giovani, invece, nella mia esperienza ho ascoltato principalmente due tipi di approccio. Da una parte, c’è chi è assolutamente deluso e demotivato e dice: “Io so che non potrò studiare perché la mia famiglia non può mantenermi, quindi finirò per fare un lavoro che mi farà schifo”, allora, da insegnante mi sento in dovere di dirgli: “Guarda che non è così nera la cosa. È vero ci sono difficoltà: la scala mobile nel nostro paese è ferma, anzi arretra, non è facile, ma non è giusto piangersi addosso, sei giovane, puoi trovare delle risorse”. Dall’altra parte, c’è chi sposa l’ideologia del merito, o del finto me rito – un concetto diffuso dalle classi dominanti per non essere “attaccate” –, che dice: “Io un giorno – cito testualmente – osserverò tutti dall’alto del mio jet”. Io provo a dirgli, sempre da insegnante, che dovrebbe de costruire, destrutturare questa cosa, che non basta aver un garage per di venire Steve Jobs, anch’io ho un garage. Alcuni studenti mi dicono che da grandi vogliono fare l’Elon Musk, come se fosse un lavoro. Detto questo, in mezzo c’è un insieme di sfumature e ciascuno ha la sua strada.

Il mio è un libro che vuole dare anche un po’ di fastidio. Se provoca un po’ di fastidio e un po’ di domande, io ho raggiunto il mio scopo. Ripeto, risposte non ne ho, altrimenti sarei candidato da qualche parte, sarei un santone o un guru, invece no, ho scritto un libro. Per me la scrittura deve urticare, deve provocare riflessioni. Se qualcuno mi dice: “Il tuo libro mi ha provocato disagio”, io sono contento.