I PILASTRI DELLA SCUOLA DELL’AVVENIRE

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economista, professore ordinario di Economia applicata all’Università di Ferrara, già ministro della Pubblica Istruzione

Stiamo vivendo una fase straordinaria, che però non è una semplice transizione: la transizione ci tranquillizza, è un percorso in cui sappiamo da dove partiamo e dove dobbiamo arrivare. Quella che stia mo vivendo, invece, è un’epoca di cambiamento che porta con sé tante incertezze. Non è vero che il cambia mento è sempre accolto con le bandiere spiegate al vento, il cambiamento mette ansia, perché ti costringe a misurarti ogni volta con ciò che sai. Eppure, non c’è bisogno di sapere tutto, basta avere dei capisaldi. E in questo c’è qualcosa di paradossale: quanto più la tua struttura intellettuale è solida, tanto più sei in grado di affrontare il cambiamento. Quanto più sei solido, tanto più sei capace di cambiare gioco, perché in fondo sei tu che guidi il gioco. Ecco, noi siamo in una fase di questo tipo, e lo siamo dal punto di vista personale e anche da quello della collettività. Siamo in un momento talmente importante che il nostro obiettivo, il nostro impegno collettivo, è quello di rafforzare la comunità proprio mentre la società cambia.

Veniamo da epoche in cui le società si ripetevano, cambiava il mondo attorno, ma le società si ripetevano. Oggi, invece, le società cambiano e dobbiamo riuscire non a negare i conflitti – che ci sono, eccome – ma a gestirli, a evitare che il conflitto di venti distruzione reciproca. Veniamo da un’epoca in cui lo slogan era: “Bisogna essere in concorrenza, vincere le competizioni”, ma ciascuna volta che tu vinci c’è qualcuno che perde e dopo dobbiamo farcene carico.

Allora, dobbiamo anche ripensare la scuola: io ho sempre pensato che la scuola dovesse essere “aperta” – perché abbiamo persone che vengono anche da storie diverse dalle quali anche noi dobbiamo imparare –, “inclusiva”, di tutti, compresi anche noi, e “affettuosa”, termine che è stato poco considerato quando si diceva che la scuola doveva essere quella del merito. No, la scuola deve essere capace d’insegnare “affetto”, che vuol dire capacità di costruire rapporti talmente solidi da potere sfidare il cambiamento.

Di quale cambiamento stiamo parlando? Io ho vissuto con l’idea che il lavoro fosse la mia prima modalità di vita, vivendo, nel gerundio, e comunque che dovesse essere per forza sempre in ascesa. Invece, i miei figli a un certo punto mi hanno detto: “No, con il Covid abbiamo sperimentato che ci sono forme di lavoro differenti, che si possono svolgere anche a distanza”, ma abbiamo imparato che quanto più trasformiamo la produzione tan to più il lavoro si manifesta in modo diverso. Per esempio, il vecchio mo dello di produzione su cui avevamo consolidato le nostre regole – che era quello della grande produzione di massa –, in realtà non c’è più, perché il vero problema è che si va sempre più verso una produzione che deve rispondere a bisogni specifici. Perché è così importante il nostro modello di piccole imprese? Perché è partito dal bisogno, non dal prodotto, è partito dalla scoperta dei diversi bisogni. E allora quello che prima era il “fuori serie” è diventato il vero oggetto dello sviluppo. Ma questo richiede molta più attenzione di prima, richiede un orecchio molto più attento alla trasformazione dei bisogni sociali.

Se analizziamo i dati, scopriamo che il PIL mondiale, dal 1970 al 1995, in venticinque anni, è passato da 10 a 30 trilioni (miliardi di miliardi), e oggi è arrivato a 100 trilioni. Che cosa è successo nel 1995? È cambiato il sistema di regolazione del mondo: fino a quel momento il mondo era diviso in due blocchi (Stati Uniti e Unione Sovietica), come una mela spaccata a metà, e la spaccatura passava per l’Europa. È accaduto che in quel mo mento di cambiamento si è trovato il modo di gestire il conflitto e, anzi ché fare una guerra, si è deciso tutti insieme di ridurre le tariffe e di fare circolare le merci. E ci sono stati molti vantaggi: gli italiani che non aveva no un grande mercato interno hanno scoperto la possibilità che quelle “nicchie” di cui ha parlato Gian Luigi Zaina diventassero il vero mercato. Ma ci sono state alcune illusioni in quell’epoca: la prima è che il mercato “mercato” non avrebbe più portato la guerra, ma avrebbe risolto tutti i problemi, anche perché una volta il mercato era più piccolo dello stato e lo stato lo regolava. Oggi il mercato è più grande dello stato e vediamo che c’è molta paura in tutti i paesi e anche una rincorsa a questa cosa che si chiama “sovranismo”, che è un po’ una corsa contro i mulini a vento. Il problema non è riportare il mercato dentro lo stato, ma avere una capacità a livello internazionale di regolare un mercato che è diventato mondiale.

All’inizio del Duemila è successa un’altra cosa decisiva: mentre prima la crescita mondiale era legata allo scambio di beni fisici, e a limite si potevano rimettere le barriere, dal 2005-2007 in poi lo scambio di beni fisici ha subito un rallentamento, ma il PIL mondiale è cresciuto lo stesso, perché è prodotto da una nuova economia, che non ha bisogno di essere fisica, è la new economy, che non ha confini, un linguaggio nuovo e tempi differenti.

Noi siamo in un paese in cui giusta mente si dà una bellissima stellina ai Maestri del Lavoro, quei dipendenti che rimangono quarant’anni nella stessa impresa. Qual è invece la proiezione di lavoro per un ragazzo? Tre anni. E dovremmo dare la stellina a un ragazzo perché è riuscito a stare in un’impresa per tre anni? È questa la media a livello mondiale, perché i giovani pensano che il cambiamento sia così rapido che loro stessi devo no esserne protagonisti. Questo mette ansia a me, a mia moglie e a chiunque perché ci accorgiamo che sta cambiando la struttura del pensiero.

Inoltre, abbiamo il grande problema che tutto il nostro sistema di organizzazione del lavoro è stato costituito nella fase precedente e si basa su una sola regola: orario contro salario. È una regola che vale nelle attività fisi che, ma se sei un creativo puoi soste nere che lavori dalle 8.00 alle 12.00?

Allora, perché è così complicata questa fase? Perché tutti noi, non sol tanto i giovani, dobbiamo riuscire ad acquisire la capacità straordinaria di non accontentarci di essere degli ex, tant’è che ormai il dibattito internazionale propone di estendere la scuola all’intero corso della vita. Questo tema in inglese è noto come life long learning e indica che nella vita non si finisce mai d’imparare. Ma c’è anche il long life learning, ovvero quei saperi fondamentali che ti servono per tutta la vita. Noi abbiamo compiuto un errore quando nel 2010 abbiamo fatto la riforma dell’università, perché abbiamo pensato che si dovesse passare da una laurea quadriennale a una laurea quinquennale, mentre la laurea in tutto il mondo è di tre anni, per permettere ai ragazzi di andare a lavorare a 21 anni, di andare a esplorare vari aspetti della vita e poi, magari, proseguono gli studi, seguire i master, mentre lavorano. Non ha senso continuare ad avere l’idea che ci sia l’epoca dello studio e l’epoca del lavoro. Nella vita occorre che ci sia un tempo in cui apprendiamo i saperi fondamentali il long life learning, e poi il life long learning, quello che fai durante tutta la vita. La scuola life long è quella scuola aperta, inclusiva e affettuosa che deve insegnarti i quattro pilastri di cui parlò Jacques Delors nel 1995 quando l’Unesco gli domandò come sarebbe stata la scuola del futuro: learning to know (imparare a conoscere), learning to do (imparare a fare), learning to live (imparare a vivere) e learning to be (imparare a essere). Intanto notiamo che learning è un gerundio, quindi un processo, non un passato. È finita l’epoca in cui potevo dire: “Ho studiato e adesso lavoro”, il learning avviene anche in luoghi diversi, anche facendo viaggi ed esplorazioni. Invidio i miei figli che sono andati a fare il Cammino di Santiago dove hanno imparato tantissimo, per esempio, che si può fare un cammino insieme con persone che non si conoscono e hanno imparato che sei capace anche di sforzarti a parlare quando non sai la stessa lingua, perché la lingua la trovi, se hai un progetto insieme.

Ma guardiamo nel dettaglio i quattro pilastri: learning to know riguarda l’acquisizione del metodo. Nelle nostre scuole, dobbiamo non tanto in segnare quanto permettere ai ragazzi di crescere avendo più metodo. Learning to do, imparare a fare, richiede l’uso delle mani, la destrezza, che in inglese si chiama dexterity, quella che raccomandava nel settecento anche Adam Smith. Ma per acquisire le capacità tecniche, le skills, devo avere un maestro che me le insegni, per questo abbiamo bisogno anche di maestri, non soltanto di professori. Learning to live vuol dire anche learning to work together, imparare a lavorare insieme: poiché non possiamo essere esperti in tutto, questo ci obbliga a lavorare con qualcun altro, ma ci costringe anche a trovare il piacere di lavorare insieme. Learning to be è la cosa più complicata di tutte, imparare a “essere”.

Questi quattro pilastri diventano fondamentali nella scuola per la quale abbiamo provato a lavorare, sono i pilastri che abbiamo messo alla base dell’ITS Maker: abbiamo permesso ai ragazzi di valorizzare i propri talenti e d’incontrarsi, di apprendere il pia cere di fare, ma anche di continuare a imparare, che è la base della nuova imprenditoria, per cui un giovane non dice più: “Ho ereditato un’impresa da mio babbo”, ma: “Ho ereditato la curiosità dal mio babbo”. Allora abbia mo uno straordinario lavoro da fare.

Quando ho chiesto ad Anna Spadafora: “Che cos’è il secondo rinasci mento?”, lei ha risposto: “È quello che proviamo a fare”. Io penso che oggi dobbiamo avere la grande ambizione di riuscire a instaurare un grande rinascimento per ciascuno, nessuno escluso.