I GIOVANI E LE IMPRESE DELL’AVVENIRE
Chi sono i giovani e quali sono, oggi, le imprese dell’avvenire? Con questo evento, I giovani e le imprese dell’avvenire (Laboratorio Aperto, Modena, 23 novembre 2023), si scrive una pagina nuova, che contribuisce a dissipare le ideologie e i pregiudizi nei confronti sia dei giovani, che non sono una categoria sociale, sia delle imprese, che non sono luoghi di sfruttamento.
L’aggettivo “giovane” deriva dal latino iuvenis, che a sua volta discende dal sanscrito yuvan: forte, eccellente. Potremmo dire che giovane è chi insiste, e non desiste, dinanzi alle avversità e alle circostanze sfavore voli, chi accetta la vita e non indossa l’abito della paura, chi non si accoda e non cerca la comodità, perché trova la forza e l’ingegno affinché le battaglie in cui si cimenta nei dispositivi della giornata giungano al compimento, alla conclusione e alla riuscita, nel gerundio, parlando, facendo, scrivendo.
Alcuni linguisti accostano l’aggettivo iuvenis al verbo juvare, aiutare, da cui “giovane di bottega”, “aiutante”. Pertanto, secondo questo etimo, giovane è chi aiuta, chi “dà una mano”. Dare una mano è un modo per incominciare, per prendere dimestichezza con un’attività, per acquisirne gli elementi. È ciò che suggerisco agli imprenditori quando mi chiedono cosa sia meglio che facciano i loro figli dopo gli studi: dare una mano nell’azienda di famiglia, anziché rimanere in attesa di capire cosa fare. Dare una mano è un’opportunità perché s’instauri la domanda, che è sempre domanda di qualità. Non a caso, “domandare” in latino ha lo stesso etimo di de manun dare: “dare una mano”.
Facendo, ciascuno non ha bisogno di scegliere cosa fare, ma intende come fare e, ingegnandosi, trova il modo opportuno per giungere al valore e alla soddisfazione. Non importa che cosa si fa, ma come si fa. È il come, il modo, a qualificare ciò che noi facciamo. Marco Moscatti nel suo intervento diceva che, per arginare il fenomeno dei NEET e quello delle grandi dimissioni, la fuga dei giovani dal lavoro e dalle imprese, occorre fare in modo che divengano protagonisti. Ebbene, proprio dando una mano, ciascun giovane ha la chance di divenire protagonista, mettendo i propri talenti a disposizione del progetto e del programma di un’attività o costituendone una a sua volta, divenendo imprenditore. Senza precludersi nulla, perché le cose procedono dall’apertura, dal due, per integrazione e secondo l’occorrenza. Per questo non c’è facoltà di scelta, e chi crede o immagina di scegliere la “cosa migliore” vive nell’economia della “cosa peggiore”, ovvero se la ritrova sempre davanti. Salvo accorgersi che la cosa non è né migliore né peggiore: “La cosa del la vita è il narcisismo della parola”, come scrive Armando Verdiglione nel suo libro La cosa. Il narcisismo della vita (Spirali), non il narcisismo del soggetto, di chi trascorre le ore a confrontarsi, a paragonarsi e a situarsi nella relazione fra sé e sé, fra sé e l’Altro, fra l’Altro e sé.
Già Nietzsche, in Genealogia della morale (Adelphi), notava che non esiste un “soggetto”, un agente dietro al fare, all’agire e al divenire e definiva “falsi infanti supposti” i soggetti: “Allo stesso modo in cui il volgo separa il fulmine dal suo bagliore e ritiene quest’ultimo un fare, una produzione di un soggetto, che viene chiamato fulmine, così la morale del volgo tiene anche la forza distinta dalle estrinsecazioni della forza, come se dietro il forte esistesse un sostrato indifferente, al quale sarebbe consentito estrinsecare forza oppure no. Ma un tale sostrato non esiste: non esiste alcun ‘essere’ al di sotto del fare, dell’agire, del divenire; ‘colui che fa’ non è che fittiziamente aggiunto al fare – il fare è tutto” (pag. 34).
Allora, se un giovane rimane chiuso in casa davanti al computer, come il protagonista del romanzo di Sandro Frizziero, Confessioni di un NEET (Fazi), non studia, non è in formazione, non ha un lavoro e non lo cerca, forse, è proprio perché si crede o s’immagina “agente” di un’ideologia dell’anti-eroe che si scaglia contro l’impresa e il capitale come se fossero il male assoluto. Assume il compito di sferrare un attacco feroce e tagliente verso tutto ciò che vede come un “mondo” finito e definito, da cui si ritiene libero di restare fuori, “fedele alla linea”, come dice il protagonista del romanzo a proposito delle sue finte ricerche di lavoro per inganna re i genitori. Ma proprio la libertà di scegliere è la massima schiavitù: la libertà del soggetto è la libertà dalla parola con la sua arbitrarietà, è la libertà della morte, la libertà che si basa sull’idea di conoscenza e sull’idea di fine. La libertà, invece, è della parola in quanto impadroneggiabile. La parola, la cosa sfugge agli umani. Da qui la paura della parola e il tentativo di aggrapparsi a un’idea della cosa o di avere “qualcosa” con cui prendersela, un pretesto o un alibi per non fare, per restare nella propria tana a rimuginare. Così, la prigione viene chiamata libertà, salvezza dai “mali del capitale”. Quanto moralismo nel pregiudizio verso il lavoro, che viene creduto strumento per “fare arricchire qualcun altro”. Il protagonista del romanzo di Frizziero non ha dubbi sulla propria scelta di ritiro dalla vita, che egli chiama salvezza, e ironizza sulle scelte dei suoi coetanei, che descrive come poveri illusi e servi inconsapevoli: “Alla realizzazione della mia situazione paradisiaca ha contribuito in maniera determinante anche Giorgia che, un giorno di fine settembre, se ne è andata a Milano, fanculo a lei e alla sua Bocconi. Si trattava, mi aveva detto toccandosi la stanghetta degli occhiali, di una scelta imprescindibile, di una tappa fondamentale della sua vita; era proprio necessario che lei contribuisse direttamente alla crescita economica del Nord, del Paese, dell’Europa, del mondo intero” (pag. 31).
Sandro Frizziero, come racconta nel suo intervento, ha ascoltato le storie di tanti ragazzi cosiddetti NEET nel suo lavoro di insegnante a un corso serale e ha raccolto i loro enunciati in modo preciso e ricco di sfumature. Il protagonista del romanzo dice che non ha stima per l’etica del lavoro che i genitori vorrebbero impartirgli, perché in realtà non ci credono neppure loro, si lamentano in continuazione dello stato e delle tasse da pagare e si sentono vittime del sistema. Pertanto, non rappresentano un esempio edificante per il figlio, che non vede l’ora di avere l’ennesimo alibi per rimanere chiuso in casa.
Nella mia esperienza di psicanalisi come aspetto della scienza della parola originaria, la cifrematica, colgo gli enunciati di ragazzi che vivono con i genitori, nonostante non manchi loro la forza e l’intelligenza per cimentarsi nel rischio di riuscita. E ciascun caso è differente. Per esempio, c’è chi enuncia l’idea di “blocco” dinanzi alla dimostrazione di super efficienza da parte di un genitore “di successo”. Il ragazzo o la ragazza rispondono con l’inazione all’azione mirabolante che viene loro “sbattuta in faccia”: “Non riesco a fare niente e mia madre non lo capisce, pensa che io sia una fannullona, mentre lei lavora fino a tarda sera per mantenermi. Ma io non riesco davvero a fare niente”, dice una ragazza di 26 anni, che vive con la mamma, non studia e non lavora. Chissà in quanti casi, dinanzi all’enunciazione dell’efficienza, si ottiene l’effetto contrario: l’enunciazione della paura, “paura di sbagliare”, “paura di non essere all’altezza”, paura cui spesso si aggiunge l’invidia della vita. Non l’emulazione, ma l’invidia da parte di chi si crede o s’immagina soggetto debole e incapace verso chi si rappresenta come soggetto della prestanza.
Allora, ci chiediamo come accade che un genitore neghi a tal punto l’autorità da mettersi alla pari del figlio e gareggiare con lui, sottolineando quanto è bravo a “guadagnare una barca di soldi” oppure rimproverando il figlio perché non riesce a essere altrettanto bravo. L’autorità non richiede il rimprovero o la dimostrazione di superiorità, procede dalla funzione di nome, di cui il padre è indice. Se in una famiglia ognuno crede di essere conosciuto e di conoscere l’Altro, non c’è la funzione di nome e il figlio non è ammesso, l’uno differente da sé non è ammesso: ogni uno dev’essere uguale a sé e all’altro uno. Da qui il battibecco, il conflitto, il pettegolezzo, in assenza di interlocuzione. Per questo è essenziale accogliere i giovani nei dispositivi in atto nella famiglia e nell’impresa, chiedere loro di dare una mano, anziché “rispettare” i loro presunti tempi o addirittura pretendere che siano pronti per scegliere la cosa giusta da fare. Lasciare che i figli si cimentino con la difficoltà, che s’ingegnino per aiutare i genitori quando interviene un problema, nel silenzio dell’intervallo, dove le cose si fanno, senza spiegazioni o giustificazioni. E non sostituirsi mai ai figli, non crederli mai incapaci, ma promuoverne l’intraprendenza, nel gioco e nel lavoro: questa è la base dell’educazione al piacere e alla soddisfazione, senza bisogno di ricorrere all’alternanza e all’alternativa fra il bastone e la carota, il premio e il castigo, da cui può scaturire soltanto un approccio mercenario alla vita, quindi anche al lavoro.
Dicevamo che occorre dissipare i pregiudizi sui giovani, ma anche sulle imprese. Chi considera l’impresa un luogo di sfruttamento si nega il bello della riuscita e chi si trova nell’alternativa tra lavorare e non lavorare, innanzitutto, non sta accettando la vita, perché la vita non è la mia vita, la tua vita, la vita non si può rappresentare, è nel gerundio, è vivendo. Facendo, inventando, cercando, viaggiando, c’è la vita. Non è la vita ideale e, anche per questo, l’avvenire non è ciò che avverrà quando tutte le cose saranno sistemate e non ci sarà più tribolazione. Se aspettiamo la vita ideale, non accogliamo ciò che la vita ci regala, nonostante le sue storture, le sue difficoltà e le peripezie che ci troviamo a vivere. L’avvenire è ciò che avviene e diviene ciascun giorno, in una trasformazione incessante. Se filmassimo una giornata di un’impresa, constateremmo eventi straordinari, perché è inimmaginabile la vita di chi corre costantemente il rischio di riuscita. Tutta la retorica che è stata messa in campo da ideologie basate sull’idea che tutto debba essere bello e funzionare alla perfezione, che lo stress debba finire per arrivare alla calma e al benessere, alimenta la fuga dal lavoro come fonte di burnout. Eppure, nessuno può fare a meno dell’impresa nella vita. L’impresa è la bottega del secondo rinascimento, in cui ciascuno può valorizzare i propri talenti, senza eludere la provocazione e l’obiezione, anzi, cogliendole come occasioni per rilanciare la domanda, per rilanciare il viaggio verso la qualità, verso il valore assoluto, il capitale intellettuale. Ecco quali sono le imprese che attraggono i talenti: quelle in cui l’avvenire è in atto, perché ciascun giorno è un avvenimento e un evento, ovvero nessun giorno è vissuto come negativo, in attesa dell’avvenire radioso. Per attrarre i talenti non basta che le imprese siano annoverate fra le best places to work, non basta che seguano i parametri della sostenibilità ambientale e dell’economia circolare, occorrono proposte, novità, progetti e programmi che suscitino entusiasmo e che consentano ai collaboratori di dare un apporto alla civiltà. Occorrono nuove imprese e nuovi imprenditori.