IL MANIFESTO DEI GIOVANI

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psicanalista, cifrante, presidente dell’Associazione culturale Progetto Emilia Romagna

I giovani sono i signori della vita”. Non molti oggi condividerebbero questo aforisma attribuito a Oscar Wilde: mai, come in quest’epoca, nei libri, nei giornali, nei siti i giovani sono presentati non come signori, ma come schiavi: schiavi delle sostanze, dell’indifferenza, dei disturbi comportamentali, tra cui primeggiano disturbi dell’umore, disturbi d’ansia, disturbi alimentari, e tanti altri. Sono schiavi di loro stessi, come dice il protagonista del libro di Sandro Frizziero, Confessioni di un NEET (Fazi editore): “Io, dentro la mia stanza, ho creato un mondo senza diritto, senza storia, senza tempo, dove il sovrano assoluto sono io”. E allora schiere di psicologi, pedagogisti, psichiatri discutono del loro disorientamento, delle loro fragilità, delle loro debolezze, accusando i giovani di vivere in una realtà virtuale, di abitare nel “qui e ora”, di non essere interessati al passato e di non preoccuparsi del loro avvenire. D’altro canto, i professionisti del disagio stigmatizzano la società, la scuola, le famiglie perché le considerano patriarcali, o per missive, o esclusive, o sorde alle istanze giovanili, istanze cui opporrebbero standard di riuscita sempre più inarrivabili. Così i giovani, dipinti sempre in bilico tra mancanza di autostima e mancanza di empatia, tra la chiusura nell’hikikomori e la socializzazione a tempo pieno, diventano una categoria sociale di cui le istituzioni e i loro operatori dovrebbero farsi carico, attraverso “strumenti di inclusione” scolastica e “sportelli di ascolto” che lavorino sulla “consapevolezza di sé e del mondo relazionale” per aiutarli a costruire la loro futura identità e un corretto modo di rapportarsi con gli altri.

Ma proprio nelle scuole e nelle aziende questo apparato sociale mostra il proprio limite, basato com’è su un approccio idea le, moralista e normalizzante, su un’idea di identità e di comportamento che non ha riscontro nella vita di ciascuno, segnata mente dei giovani. Anzi, potremmo dire che, come emerge dai testi pubblicati in questo numero, la giovinezza non è san cita dall’età o dall’atteggiamento: giovane è proprio chi non si rassegna a accettare un’identità stabilita o un comportamento standard, quali che siano i riferimenti anagrafici. Perché i giovani, come ciascuno di noi, dovrebbero interessarsi a un passato che, in assenza di memoria, è presentato come sequela di ricordi elencati in modo genealogico o archeologico? Perché dovrebbero preoccuparsi del loro avvenire, sottoposto dagli indovini e dai prestigiatori dei media e della conoscenza a scenari sorretti dall’idea di panico e dall’idea di terrore, in bilico tra una disto pia della ragione e un’utopia della volontà? Nessuno più dei giovani di ogni età ci indica come la memoria e l’avvenire non sono ideali, sono in atto, nell’atto in cui le cose si dicono, si fanno e si scrivono: la memoria, come esperienza in atto e l’avvenire, dove quel che si fa si scrive, senza che ce ne occupiamo o preoccupiamo.

Nel suo articolo in questo numero della rivista, Anna Spadafora scrive che giova ne è chi “non indossa l’abito della paura, chi non si accoda e non cerca la comodità”. Può sembrare, invece, che troppi giovani reagiscano al conformismo o alle relazioni sociali facendosi guidare dalla paura della solitudine, o accodandosi in modo gregario a bande e comunità (talora sorrette dallo sballo o dalla violenza) da cui temono l’esclusione, o accomodandosi nella comfort zone della propria cameretta o della propria compagnia, disinteressati all’arte e alla cultura, al lavoro e all’impresa. Ma come non cogliere che queste rappresentazioni sociologiche e psicologi che dei giovani restano nell’osservazione del fenomeno e mancano l’essenziale, l’analisi linguistica e l’ascolto?

L’ascolto non abita lo sportello, non serve alla conoscenza e alla consapevolezza di sé, e nemmeno sta in un centro, non è la mediazione tra due poli: l’ascolto esige il dispositivo linguistico narrativo, non il “botta e risposta” realistico del dialogo, perché procede dal due, dalla questione aperta, non dall’unità, dall’interrogazione chiusa, che fonda la risposta per ricostituire l’unità. E la disposizione all’ascolto è la disposizione alla differenza e alla varietà, non all’identità e all’unificazione. L’ascolto non è intersoggettivo, né possibile, né necessario: “Ti ascolto” è l’enunciato che manifesta la propria sordità. “Ascoltati!” è il comando che impedisce la parola. Quale giovane, di ogni età, potrebbe accettare questi precetti morali, questa modalità paternalista o maternalista sempre pronta a consigliare e a comprendere, dunque a fornire il migliore terreno di cultura per ogni vittimismo? E come sorprendersi se l’ostentata luminosità delle buone intenzioni non può che spingere verso la ricerca dell’oscurità e della negatività?

Tutt’altro che luminosa la luce dell’ascolto. L’ascolto non esorta, non patteggia, non cerca l’intesa, corre sul filo e sulla corda del malinteso. Alla luce dell’ascolto: l’ascolto e l’intendimento seguono la via del malinteso, non quella dei chiarimenti, delle confessioni, delle intese, che sono le vie della sordità. Sordità degli adulti, secondo cui i giovani rifiutano i valori e non ascoltano i loro insegnamenti, senza nemmeno percepire che quel che non è accettato è il sistema dei valori sociali e degli insegnamenti magistrali, dunque il sistema del nulla, che viene proposto. Come sorprenderci se non vengono accettate queste sostanzialità e mentalità? L’accettazione della vita esclude l’accettazione della sostanza e della mentalità. I giovani non ascoltano? Contrapporre le proprie idee alle loro vale a fomentare la polemica, sorda per definizione. Importa invece instaurare un dispositivo linguistico, importa quel che essi enunciano, anche in modo contra stante, della loro impresa e del loro fare in atto. E, più che da quel che viene detto, l’ascolto viene da quel che si fa: il fare introduce all’ascolto, alla punta del progetto e del programma. I giovani esigono l’ascolto, non i precetti per l’azione, sono interessati a dispositivi nuovi, non a subentrare negli arcaismi. Non negano, come potrebbe apparire, l’economia e la finanza, il commercio e l’industria, ma non accettano l’idea so stanziale, mortifera, totalitaria che l’ideologia familiare, scolastica, aziendalistica ne offrono. Dice il protagonista del libro di Frizziero: “E ora cosa dovrei volere? Un lavoro in un grande ufficio nel centro di una graziosa città veneta circondata da campi di radicchio? Una bella Audi con gli interni in pelle? Un’affascinante moglie complessata, dei figli ingrati, una villetta a schiera con tanto di garage per metterci l’Audi che nel frattempo avrei dovuto rottamare? No, non me la sento. Scusate. Vi lascio tutto”.

Nella famiglia, nel lavoro, nell’impresa, i giovani pongono la questione dell’accettazione della vita originaria, non dell’esistenza convenzionale, sotto posta ai valori dell’epoca presente. I giovani sono intrattabili? Nulla e nessuno è trattabile, ogni trattamento è un vano tentativo di sottoporre il tempo e l’Altro alle proprie idee, cioè ai propri fantasmi. Nella vita originaria, la vita in atto, l’età non è l’epoca e non è cronologica, perché il tempo non è durata: è tempo della parola, tempo del fare, tempo pragmatico, tempo intrattabile, tempo libero. Proprio a questo tempo, quello che i greci chiameranno kairós, si riferisce l’accadico üwu (da cui iuvenis), che indica il tempo pragmatico, l’occorrenza, e anche la forza, la forza del fare. Giovane riguarda l’età della vita e il tempo pragmatico, il fare e la domanda, nel dispositivo linguistico del gerundio della vita di ciascuno.

I giovani insistono nel dire, chiedono, pretendono, non sono mai contenti? Per questo sono indispensabili in ciascuna azienda. L’impresa dell’avvenire esige i giovani perché pongono istanze pragmatiche, perché avanzano un’esigenza di novità, perché indicano la via dell’occasione e dell’occorrenza. La giovinezza non accetta la scuola, il lavoro, l’impresa, la finanza che prescindano dall’arte e dall’invenzione, che considerino i giochi già fatti e la formazione come iniziazione. Se la formazione è intesa come iniziazione, le relazioni e le cose sono già date, e le idee, dunque i pregiudizi, della leadership  impediscono l’esperienza in atto, dunque l’invenzione e il gioco, che invece non hanno bisogno di consapevolezza, altro nome della coscienza soggettiva. Gioco e invenzione non sono prerogative del soggetto, ma del narcisismo del dispositivo nomade in viaggio, che ignora autostima e empatia. L’impresa con l’avvenire dinanzi non si rappresenta le relazioni e le cose, accoglie i giovani perché con il loro fare e la loro forza (quella che Sigmund Freud chiamava pulsione) diano il loro apporto (anche adiuvare, aiutare, ha stesso etimo di iuvenis) essenziale al progetto e la programma, dunque al bilancio dell’avvenire.