L’IMPRESA INTEGRA, NON ELIDE
La riuscita nell’impresa esige l’intelligenza come arte del malinteso, ovvero come arte del fare, che si avvale della particolarità e dell’anomalia, anziché cercare di uniformare le cose verso un unico modo. Il modo non è mai l’unico modo s’intitolava il suo articolo pubblicato nel n. 102 della rivista. Lei ha sempre sostenuto che l’impresa si costituisce in quanto, facendo, ciascuno valorizza il proprio talento e così dà un contributo al progetto e al programma dell’azienda. E, tuttavia, c’è da tenere conto che l’impresa non è un organismo che si comporrebbe della sommatoria delle sue parti, ma un’esperienza, un viaggio che procede per integrazione. Senza procedura per integrazione, non esiste l’impresa, perché prevale l’idea di dover tagliare ciò che non va e non funziona secondo un ideale cui omologare e uniformare tutto e tutti…
Infatti, l’impresa integra, non elide. Nel processo di integrazione delle competenze e quindi nella progettazione ed esecuzione delle procedure, è tuttavia necessario fare in modo che vi sia un punto di in contro, di connessione, e connettere competenze significa connettere le persone che, ovviamente, non sono semplici ingranaggi da accostare in successione in un processo produttivo e mantenere lubrificati mediante la retribuzione. A mio avviso l’integrazione delle persone, volta a sviluppare processi che portano alla realizzazione di un prodotto o di un servizio, fonda le sue basi sul perché, sul cosa e sul come.
La questione più importante e più motivante si risolve nel perché, e non tanto nel perché funzionale quanto nel perché di senso. Perché lavoro? Nel mio lavorare scambio ore di vita con un salario che mi consente di pagare i costi della vita al di fuori del lavoro? Oppure c’è un senso più profondo nel lavoro, un perché lavoro che determina anche il come lavoro e, solo in ultima fase, il cosa lavoro, il cosa produco?
Diverse esperienze, letture, in contri, riflessioni, peraltro tutt’altro che terminate, mi hanno portato alla convinzione che se non partiamo da un perché condiviso, un senso del lavoro che ci accomuni, allora la costruzione dei processi aziendali sarà puramente funzionale al risultato atteso e quindi chiederemo alle persone semplicemente di funziona re. È l’organizzazione per mansioni dove proliferano i “non è compito mio” davanti a qualsiasi necessità o richiesta di deviazione dalla propria funzione.
Quindi il perché è elemento centrale e va a definire il senso del nostro lavoro. Un senso molto ampio che non si esaurisce in un’unica considerazione, alla quale devo, tuttavia, limitarmi per ovvie ragioni di spa zio. Mi riferisco al potere trasformativo del lavoro, non tanto a quello che esercitiamo sulla materia, ma a quello che produciamo noi stessi. Il lavoro ci tras-forma, ci pone nelle condizioni di aumentare le nostre competenze tecniche specifiche, ma anche quelle relazionali; inoltre, l’utilità del nostro lavoro influisce sul nostro grado di autostima. Mi riferisco all’utilità tecnica di un lavoro ben eseguito, ma anche all’utilità del nostro contributo alla tras-formazione delle altre persone, e all’utilità di quanto fa l’azienda, anche grazie al nostro contributo, per favorire sviluppo e coesione sociale nel territorio in cui opera.
Il lavoro ci aiuta a essere indipendenti e non ricattabili, ad avere maggiori opportunità di scelta, compresa quella di restare nella stessa mansione, azienda, territorio, o di cambiare. Opportunità di scelta, di sviluppo della propria vita. Tutto questo non ha forse un senso? Non ha il carattere trasformativo della vita stessa?
Lei notava che l’impresa non è un organismo che si può comporre come sommatoria delle sue parti, ma un’esperienza, un viaggio di vita che procede per integrazione. Aggiungo che il collante di questa integrazione non è il prodotto finale, ma è il senso del lavoro e il fatto che il tempo del lavoro è tempo di vita in cui, oltre al prodotto e al servizio, produciamo noi stessi. Se è vero che ciascuno ambisce a costruire un se stesso migliore, allora, riempiamo di vita il tempo del lavoro, non viviamolo passiva mente accontentandoci di funzionare bene. L’uomo non funziona, l’uomo fa e facendo bene costruisce e si costruisce bene.
Quindi, questo collante, il senso del proprio lavoro, è indispensabile perché in azienda il fare è qualcosa che coinvolge vari attori e, come lei diceva, esige la procedura per integrazione, altrimenti torniamo alla catena di montaggio, in cui ognuno riceve un pezzo e lo passa al collega, senza porsi domande, senza chiedersi da dove viene e a cosa servono il prodotto o il servizio finali. Occorre condividere il senso del nostro lavoro, la responsabilità che ne deriva e quindi il desiderio e l’impegno a fare bene, e per fare bene dobbiamo mettere noi stessi nel nostro lavoro, non rendere anonimo il nostro contributo, mostrare e praticare la cura, per le perso ne, per i processi e per le cose, per le strumentazioni e per l’ambiente. Instaurare la cura.
Certamente c’è una condizione indispensabile o che comunque influenza significativamente il fare bene, e questo è lo stare bene. L’organizzazione, l’azienda nel suo complesso, deve mettere i collaboratori in condizione di stare bene, di usufruire di un ambiente di lavoro dove si presta grande attenzione alla sicurezza, al benessere ambientale e alle relazioni interpersonali. Non ultimo, occorre che il collaborato re possa constatare e riconoscere il bene derivante dall’operato dell’azienda: quali vantaggi, quale valore, l’attività dell’impresa trasferisce ai clienti, agli stakeholder, all’ambiente. Fare bene, stare bene e fare il bene deve essere il nostro mantra, il punto di riferimento delle nostre decisioni e del nostro lavoro.
Chi vive in compartimenti stagno lo fa perché idealizza qualcosa, allora, la vita è impostata nell’idea di alternanza e alternativa, per cui, per esempio, il tempo dedicato al lavoro è negativo e quello dedicato alla famiglia o allo svago è positivo. Ma nella giornata ciascun istante è nel gerundio e, vivendo, ciascuna cosa non può essere definita, rappresentata e classificata schematicamente come bella o brutta, positiva o negativa, perché ha una sua complessità…
La nostra cultura purtroppo è ancora molto legata a questa sud divisione, tanto è vero che spesso si parla di work-life balance, il bilancia mento tra il tempo dedicato al lavoro e il tempo dedicato alla vita (vera?). Di per sé non c’è nulla di negativo in questo argomento, se non che questa definizione segna una barriera tra la vita e il lavoro. È chiaro che nella vita c’è tantissimo altro oltre al lavoro; ma perché questo dovrebbe disconoscere che il tempo del lavoro è tempo di vita, è tempo trasformativo per la persona? Il lavoro ci può trasformare in meglio o in peggio in funzione di come viene organizzato, ma anche in funzione di com’è vissuto, curato dalla persona.
A che pro questa insistenza sul la separazione tra tempo di vita e tempo di lavoro? Il lavoro è tempo di vita. Se si continua a separare il lavoro dalla vita, allora, la conclusione è che le persone barattano ore di vita in cambio di un salario che permette loro di fare la “vita vera”. Vendono parte della propria vita a qualcun altro: “Utilizza la mia vita per otto ore e, in cambio, mi dai ciò che mi serve per vivere la vita vera”.
Sarebbe la logica mercenaria allo stato puro…
Senza soddisfazione, il lavoro diventa una pena: cosa vale una vita? Il salario di un’ora di lavoro rappresenta il valore della vita? Noi sappiamo certamente che non è così, ma credo che ci sia tanta strada da fare per convincere le persone che il lavoro ha un senso differente, che il lavoro è vita, e che quindi vale il piacere di viverlo in modo pie no, sfruttando e ampliando le proprie competenze, crescendo e instaurando dispositivi di valore con ciascun collega, indipendentemente dal posizionamento gerarchico. Insisto sulla creazione di valore nel rapporto con i colleghi: instaurare la cura, che è ascolto attivo, comprensione, comunicazione trasparente, gentilezza, anche nelle manifestazioni di dissenso e perfino nell’indispensabile fermezza di decisioni difficili. È chiaro che la politica dell’azienda, la cultura che la contraddistingue, e che evidentemente non può essere difforme da quella dell’imprenditore, influenza in modo decisivo la percezione della vita nel lavoro e, potremmo dire, la vitalità stessa dell’impresa e la sua sostenibilità. Ma tutto questo non è vita vera? Non è trasformativo? Non è libertà? Non mira alla coesione? Possiamo quindi integrare quanto scritto da Pierre Lévy circa la straordinarietà dei momenti ordinari e affermare che “Ciò che la vita offre di più straordinario si trova nei momenti ordinari. In qualsiasi momento.
Anche nel tempo del lavoro. Ora”.