LA NARRAZIONE DELL’AZIENDA NON È LO STORYTELLING

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manager di CerealVeneta Srl, San Martino di Lupari (PD)

Grazie ai suoi oltre trent’anni di eccellenza nella produzione di semilavorati da cereali, semi e legumi, la CerealVeneta non ha bisogno d’inventare uno storytelling per suscitare l’interesse delle grandi industrie alimentari in Italia e in altri paesi: le basta raccontare la sua storia, la sua esperienza di ricerca e d’innovazione, accanto al viaggio intellettuale intrapreso, in particolare, dalla direzione aziendale. Quando è incominciato e come sta proseguendo il vostro percorso di formazione?

Circa dieci anni fa, mia madre, Vanna Daminato (fondatrice dell’azienda insieme a mio padre, Livio Fior), ha incontrato il nostro attuale responsabile della qualità, Fabrizio Moda, il quale teneva un corso sull’alimentazione che lei aveva organizzato con l’università per giovani e adulti del Comune di San Martino di Lupari. È stato lui a introdurre la cifrematica come esperienza della parola nella nostra azienda. Dopo il corso, infatti, abbiamo incominciato a frequentarci, sia in termini di collaborazione sia per amicizia, e quasi subito abbiamo avviato un percorso, prima con equipe di lettura e poi con una serie di corsi intorno al brainworking.

Innanzitutto questa esperienza sta producendo quegli effetti di qualità da cui la direzione di un’azienda – nel nostro caso, la proprietà – non può esimersi. Grazie all’esperienza della parola la comunicazione in azienda è molto differente. Si parla tanto di “clima aziendale”, ma se l’itinerario intellettuale di ciascun collaboratore non si qualifica in termini linguistici, se ognuno pensa di poter dire tutto ciò che gli viene in mente, non c’è costruzione, ma dilagano i pregiudizi da cui derivano i personalismi, i conflitti e i blocchi. E se la spinta alla qualificazione della parola non parte dalla direzione aziendale, non possiamo attenderci che i collaboratori s’impegnino autonomamente. Oggi possiamo affermare che i risultati intervenuti nella nostra azienda, e quelli che mi auguro interverranno, sono anche merito di questo viaggio, che abbiamo esteso ai collaboratori, sia in modo diretto, offrendo loro l’opportunità di partecipare attivamente alle equipe di lettura e ai corsi, sia in modo indiretto.

In che senso?

Nel senso che gli effetti del processo di qualificazione dell’itinerario di alcuni collaboratori che partecipano agli appuntamenti ricadono anche su coloro che non hanno funzioni di responsabilità e non partecipano, almeno per il momento. Tuttavia, per offrire occasioni di parola anche a coloro che lavorano in produzione, oltre a tenere una riunione all’inizio di ciascun turno, teniamo una volta alla settimana una riunione in cui ciascuno può avanzare proposte di miglioramento. Inoltre, li incontriamo periodicamente e stiamo cercando di organizzare con ciascuno incontri di narrazione, per la valorizzazione del loro itinerario intellettuale. Nel loro caso occorre uno sforzo organizzativo maggiore rispetto a coloro che lavorano negli uffici e che si possono incontrare più spesso in modo fortuito. Infatti, oltre agli appuntamenti stabiliti, bisogna sfruttare le varie occasioni di parola che intervengono nella giornata per cogliere gli elementi linguistici che ci aiutano a dissipare i pregiudizi e i luoghi comuni che si frappongono alla riuscita in ciascuna attività.

Lei diceva che avete incominciato la formazione dieci anni fa con le equipe di lettura. Come si svolgono?

Ciascuna settimana, mandiamo ai partecipanti brani di testi tratti dai libri di brainworking che possono essere interessanti rispetto alla nostra esperienza. Ciascuno li legge e poi manda le sue note, che diventano materiale per l’equipe che teniamo un’ora la settimana. Abbiamo precisato fin dall’inizio che non è un’équipe in cui ognuno “dice la propria”, non è brainstorming, perché semplicemente non c’è da sancire ciò che è giusto o sbagliato, ci sono note di lettura e riflessioni intorno a casi pragmatici. Quante cose nascono da queste equipe: cose di cui magari lì per lì non ci si accorge nemmeno, ma che sono essenziali per scardinare quelle fantasie e quelle credenze che non lasciano le idee libere di operare, limitano l’invenzione e il raggiungimento dei traguardi nel lavoro e nella vita.

È un esempio molto interessante del modo in cui si giunge alla comunicazione pragmatica ed efficace, se si dissipano i fantasmi di padronanza che costituiscono il discorso occidentale, la vera “fake news”, come recita il titolo di questo numero della rivista. Senza i dispositivi della parola, se non si esplorano le cose che si dicono, ognuno è preso nella rappresentazione del personaggio che si porta dietro e addosso, credendo che faccia parte della propria natura o della propria storia, e i conflitti, i lamenti, i pettegolezzi sono all’ordine del giorno…

L’adesione ai luoghi comuni del discorso occidentale, alla “fake news” per antonomasia, come notava lei, è qualcosa che constato anche sui social. Su LinkedIn, per esempio, il moralismo è dilagante e sono tante le aziende che si affidano ad agenzie di marketing le quali dipingono l’ambiente di lavoro e le varie attività in maniera standard. C’è una ripetizione continua degli stessi messaggi adattati in mille salse. Anche se all’apparenza tutto ciò che descrivono può sembrare fantastico, non essendoci specificità, dubito che di per sé porti alla qualificazione dell’esperienza imprenditoriale. Diventa un discorso un po’ soporifero, più che una narrazione in cui si avverte la tensione verso la qualità, verso il valore assoluto.

Infatti, c’è il rischio che tutti si riempiano la bocca di etichette, per cui ogni azienda deve presentarsi come “sostenibile, green, circolare e attenta al work-life balance”, ma non è scontato che poi ci sia parola fra le varie persone che lavorano in un’azienda dipinta come un paradiso…

Purtroppo, a volte accade che l’esperienza di un’azienda sia davvero interessante, ma poi affida la comunicazione a un’agenzia di marketing che racconta le cose aderendo ai canoni dell’epoca. Io non utilizzo parole etichetta come green o work-life balance perché, oltre al fatto che sono standard, sono anglicismi che vogliono dire tutto e niente e non danno di sicuro un contributo all’itinerario intellettuale di ciascuno. È come se, con la sostenibilità o con il work-life balance, ognuno indistintamente, come dire “tutti quanti”, potessero trovare la felicità. Quindi è una sorta di promessa. Invece, bisogna verificare l’itinerario di ciascuno, ciascuna volta, verificare che cosa occorre fare e cosa dà valore. Perché tutti questi slogan sono alienanti, annientano l’intelletto.

Raccontare non è facile, non è facile coinvolgere i collaboratori nel racconto dell’avvenire dell’azienda. Per esempio, noi adesso stiamo cercando di trasmettere l’investimento che abbiamo messo in campo con la costruzione del nuovo stabilimento dedicato esclusivamente ai prodotti senza glutine. È importante che ciascuno avverta la portata dell’investimento e la trasmetta, a sua volta, ai clienti. Ma questo non può avvenire attraverso la comunicazione diretta, non possiamo metterci a spiegare e a ripetere che cosa sarà il nuovo stabilimento. In altre parole, il coinvolgimento non è ideale, ma, a seconda del dipartimento, della mansione e del compito specifico che consente a ciascuno di trovare integrazione nei vari dispositivi, interviene un racconto differente, in modo che ciascuno intenda il valore della novità e che questo sia motivo di rilancio per le attività che egli sta svolgendo.

All’inizio lei diceva che la narrazione dell’azienda non deve cadere nello storytelling, che sarebbe lo standard. Per me è qualcosa di una certa complessità perché, soprattutto all’interno dell’azienda, la narrazione dev’essere incessante, nulla è mai detto una volta per tutte. Ma non è semplice trovare il modo opportuno ciascuna volta per narrare qualcosa.

Forse qui possiamo precisare come il racconto non sia il racconto dell’esperienza vissuta, ma ciò che è costitutivo dell’esperienza in atto: come dire, la parola agisce, non è lo strumento per raccontare qualcosa che starebbe al di fuori della parola. Se non c’è parola, il nuovo stabilimento può essere anche bellissimo, ma “non esiste” per chi non è coinvolto in un dispositivo che concerne quello stabilimento. Come notava lei, non si tratta di “parlare del” nuovo stabilimento, di verbalizzarlo e di ripetere che ci sarà il nuovo stabilimento, ma ciascuna volta di trovare gli elementi per metterlo in gioco, quindi anche di predisporre esperienze in cui ciascun collaboratore sia coinvolto…

Di sicuro non gli si può dire semplicemente: “Lo stabilimento nuovo è bello”. Occorre inventare ciascuna volta.