LA CIBERNETICA ACCENTUA LA DISINFORMAZIONE

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giornalista, scrittore, docente di Teoria e tecniche della comunicazione giornalistica all’Università Statale di Milano

Il mio libro del 1994, Le notizie del diavolo. La parabola ignota della disinformazione (Spirali), riguardava i media cartacei, radiofonici e televisivi. Più recentemente, nel 2019, con Ultime notizie dal diavolo (Guerini), ho allargato l’indagine alla disinformazione informatica, che ha accresciuto la portata delle varie distorsioni. Ci troviamo ora alle soglie di una fase successiva, “cibernetica”. Essa è all’insegna di quei sistemi di software generativi, apparentemente creativi, in grado di darci “una lettura originale della realtà”. Ma quest’ultima affermazione è già in sé una notizia del diavolo. Infatti l’AI, come ChatGPT o il Metaverso, restituiscono soltanto ciò che noi vi abbiamo immesso. Se fossero esistiti al tempo di Eratostene, nel III secolo a.C., il matematico greco si sarebbe visto informare che senz’ombra di dubbio la Terra era piatta. In altre parole, il lato oscuro della cibernetica accentua la disinformazione cui siamo esposti, spezzando i collegamenti logici, occultando una pura rielaborazione dei dati dietro alla pretesa di originalità, e occupando gli spazi della comunicazione sia verbali che visivi, sia acustici che sensoriali. Chi dirige questa orchestra mediatica – siano OPT, servizi segreti, partiti, aziende, organizzazioni criminali o governi – mira a controllare gli accessi e la distribuzione delle informazioni, generando e manipolando parole, concetti, suoni e immagini. Corriamo così il rischio di annegare in una zuppa di linguaggi, dove comunicazione, giornalismo, arte e scienza sono inquinati. E dove i collegamenti logici sono recisi, mentre la libertà interpretativa, e di conseguenza la creatività individuale, sono rese impossibili.

I nuovi sistemi cibernetici, successori di quelli tradizionali e informatici, saltano le premesse ed eliminano i dubbi, impedendoci di valutare ciò che ci viene proposto, perché lo presentano come un fatto ovvio e di senso comune. Scaricare un’App, vivere un’esperienza in 3D o dare ascolto a ChatGPT equivale a prendere atto di una “verità”. La frattura rispetto a un corretto percorso mentale è in atto.

Al presente ci troviamo, insomma, nel punto di congiunzione fra disinformazione informatica e cibernetica. E può essere utile illustrarne i risultati tramite alcuni esempi.

Il 3 aprile di quest’anno, sul telegiornale de “La 7”, è stata trasmessa una puntata all’insegna del cosiddetto data journalism, una tipologia di “nuovo giornalismo” molto di moda, e basata appunto sulla raccolta di dati. La conduttrice esordì affermando che l’Unione europea era simile a una bicicletta e avvertì: “O si pedala o si cade, quindi tutti siamo tenuti a pedalare”. E per convincerci a farlo estrasse dal suo cilindro mediatico la seguente notizia: “Se continuassimo sulla strada tracciata sinora dalle Ue, a partire dal 2032, potremmo calcolare di aver guadagnato 2800 miliardi all’anno”. Dividiamo la somma per il numero degli abitanti dell’Unione: ne viene una bella cifra! Dal che conseguiva l’esortazione finale: “Ragazzi, coraggio, vale la pena di pedalare!”.

Ma la fonte di quella gratificante informazione figurava solo di sfuggita nei titoli di coda: era il servizio di ricerca del Parlamento europeo. In breve, l’oste assicurava che il suo vino era buonissimo, e tale affermazione era data per certa. Una volta accolta e riciclata dai sistemi generativi, questa finta verità può facilmente trasformarsi in un dato incontestabile.

Per restare in campo europeo, esaminiamo la narrazione comunemente diffusa dai media intorno al Pnrr. Anche qui ci viene decantato un miracolo di miliardi “regalati” – in realtà l’Italia ha dato il suo sostanzioso contributo al Pnrr – o generosamente imprestati da Bruxelles, in attesa di essere restituiti. Silenzio invece da parte dei vari media sulle regole complicatissime di applicazione del Piano, e sul fatto che comunque comporterà truffe, equivoci, complicazioni burocratiche, squadre di controllori, sicché tempi e costi si dilateranno. E non solo questo. Manca il collegamento logico e informativo tra quanto ci viene dato da Bruxelles, quanto ci viene richiesto e quale sarà l’impatto produttivo reale nei vari paesi, Italia compresa. Ci stiamo impegnando davvero in qualcosa che aumenterà la nostra ricchezza, oppure lo scopo di tutto questo enorme sforzo consiste solo nel rispettare le regole del Piano e accettare a scatola chiusa la bontà dei suoi obiettivi? Un simile dubbio riguarda mille altre disposizioni europee calate dall’alto, siano esse il nucleare, le case “green”, le tasse sugli immobili, il tabacco, la famiglia, le auto elettriche o i motori a scoppio.

Passando a tutt’altra area geografica, è istruttivo esaminare come certa propaganda russa, per mezzo della disinformazione informatica e cibernetica, cerchi di occultare la propria ideologia nazicomunista. Anche qui il filo della logica e quello della storia vengono impietosamente recisi.

Il nazicomunismo non è un’invenzione del regime putiniano, esiste fin dal secolo scorso. Il famoso appello di Stalin alla grande guerra patriottica contro Hitler è stato un macroscopico esempio di mescolanza tra nazionalismo e comunismo. Oggi questa ideologia trova una sua espressione moderna nella guerra di aggressione condotta dalla Russia e da Putin ai danni di uno stato confinante, imputato di vari misfatti. Se esaminiamo le accuse che provengono da Mosca, però, possiamo scoprire la loro matrice nazicomunista, accuratamente celata.

Putin continua, fin dall’inizio dell’invasione dell’Ucraina, a definire i suoi nemici “nazisti”. E in sovrappiù drogati, omosessuali, corrotti, servi dell’Occidente: l’armamentario leninista classico, che l’ex capo del Kgb conosce bene. Ma diamo un’occhiata ai mezzi militari impiegati dai russi. Su di essi è dipinto un simbolo misterioso, una “Z”. Significa “andremo avanti sino alla fine?”. O la lettera designa il presidente Zelensky da eliminare? O è invece l’iniziale di “Zapad”, “occidente” in russo, verso cui bisogna marciare? Sia come sia, sovrapponendo due di queste “Z”, si ottiene una svastica. Chi ha orecchie per intendere intende fra i soldati che marciano sotto quella insegna. Del resto, la “stazione Z” era un campo nazista di sterminio, le fucilazioni vi si svolgevano sul retro dell’edificio principale. Per non parlare della scelta d’intitolare il corpo mercenario russo a Richard Wagner, il compositore preferito di Hitler. Insomma, accusare di nazismo i nemici, essendo essi stessi portatori di un’ideologia che mescola insieme nazismo e comunismo, è un esercizio raffinato di disinformazione del regime putiniano: come gridare “Al lupo” essendo il lupo.

Perché insisto sul concetto di nazicomunismo? Perché la sua componente nazionalsocialista è razziale, implicitamente e segretamente adottata da Putin e dai suoi uomini. Là dove c’è un russo è Russia, là dove si parla russo è Russia, là dove c’è sangue russo è Russia. Ne consegue il diritto storico di eliminare gli altri. Naturalmente tutto ciò si sostiene sulla famosa triade ideologica della Grande Russia, i tre pilastri del Russkiy Mir: il popolo – con una missione speciale di salvezza nel mondo; l’ortodossia –, la chiesa allineata al regime, oggi rappresentata da Kirill; e l’autocrazia, cioè il potere politico che si autogenera e il capo che si autolegittima, rispondendo soltanto a se stesso, almeno finché è vincente.

Ma una realtà così palese viene ignorata, e mai un sistema generativo cibernetico la prenderebbe in considerazione, poiché i media non gli forniscono materiali da rielaborare. E così la catena del silenzio si perpetua.

Un altro esempio significativo riguarda il 25 aprile, giorno in cui si festeggia, con la Resistenza, la liberazione dal nazifascismo e la fine dei suoi crimini. Ma questa celebrazione ha un senso se viene privata dei suoi aspetti critici e della realtà storica? I crimini partigiani devono essere taciuti, in nome di un’ideologia di stato, o è giusto, da uomini liberi, parlare anche di questi? Pensiamo al caso della violenza commessa dai partigiani comunisti contro la Brigata Osoppo, o agli omicidi compiuti dalla Volante Rossa a Milano Lambrate, o al martirio del seminarista Rolando Rivi, nel modenese, o a tanti altri casi di omicidio giustificati da una visione del mondo totalitaria. E lo stesso silenzio ufficiale avvolge le forme non militari di Resistenza avvenute in quegli anni: dalla passiva della maggioranza della popolazione italiana a quella silenziosa dei deportati in Germania e in Unione Sovietica. E, allo stesso modo, viene passata sotto silenzio la differenza fondamentale che esisteva tra le formazioni partigiane comuniste e quelle democratiche: nelle prime c’erano i commissari politici, si approvava il terrorismo individuale, e soprattutto si aspettava, dopo la caduta del nemico, “l’ora x” della rivoluzione per instaurare in Italia un regime totalitario. Tutto questo è stato dimenticato persino dalla massima carica dello Stato, quest’anno, al momento della celebrazione della Resistenza. E il sistema disinformativo dei media ne è stato connivente.

E ora un esempio direttamente legato ai nostri giorni: il problema della crisi della natalità. Di fronte alla constatazione che gli italiani stanno diminuendo perché le nascite sono inferiori alle morti, si traggono conclusioni unilaterali, senza considerare il fatto che la stessa cosa sta avvenendo in tutti i paesi europei. Anche dove vengono compiuti i maggiori sforzi in favore della natalità, come la Francia, l’indice di fertilità rimane intorno all’1,80, 1,90 di figli per donna, e continua a scendere. Quali soluzioni vengono invocate per invertire la tendenza? Si parla di abolire le tasse per chi fa figli o consentire congedi pluriennali a madri, padri, magari finanziando anche i nonni, o addirittura mandare i genitori in pensione anticipatamente. Tuttavia, l’Osservatorio sui Conti Pubblici Italiani dell’Università Cattolica ha appurato che non c’è nessuna correlazione statistica tra reddito, welfare e natalità. Il problema risiede altrove, e riguarda la coscienza di sé, i valori e i ruoli condivisi di uomini e donne, ciò che realmente vogliono e ciò che la cultura diffusa dai media propone o impone loro. Ma questo non fa parte delle cose che si dicono e si scrivono. Bisogna proclamare che finanziamenti, congedi parentali e asili nido sono la soluzione del problema. Un lavacro collettivo delle coscienze all’insegna degli sgravi fiscali, e con la connivenza presente e futura di tutte le ChatGPT nel mondo.

Il mainstream della disinformazione, insomma, vuole condurci dove vuole. Ci martella con immagini apocalittiche del riscaldamento globale, anche qui chiudendo le porte a un dibattito realmente scientifico. Ma i paradossi fanno capolino sotto la coperta distesa sulla realtà. Ad esempio, il numero degli orsi bianchi – che sugli schermi vediamo continuamente boccheggiare, aggrappati ad iceberg in via di scioglimento – è passato dai cinquemila esemplari del 1940 ai 22.000 di oggi.

Tanti allarmi ambientali, e la paura che provocano quando ci informano che la fine del pianeta si avvicina, non sono sospetti? Non fanno pensare alla disinformazione in atto? Essa toglie, taglia, frantuma i nessi logici e occupa spazi. Negli anni settanta era l’inverno nucleare a spaventarci: la guerra atomica avrebbe diffuso tali scorie da oscurare il sole e condannarci alla morte glaciale. Oggi ci viene raccontato l’opposto: stiamo andando verso una desertificazione generale del pianeta e a temperature da ebollizione. (Siamo scampati da poco, nel 1999, a un’altra apocalisse: il cosiddetto “millennium bug”, quando i computer alla fine dell’anno avrebbero dovuto bloccarsi, gli aerei cadere, le comunicazioni interrompersi. Naturalmente, niente di tutto ciò avvenne).

Veniamo bersagliati da annunci di catastrofi, e dobbiamo chiederci perché vogliono farci paura. Ci promettono paradisi a portata di mano, nascondendo le prove. Gridano “Al lupo” per distrarci dai loro istinti predatori. Raccontano la storia riveduta e corretta, accusando di revisionismo e negazionismo chi la mette in discussione. L’epoca cibernetica alle porte, attingendo ai contenuti con i suoi algoritmi, è in grado di elevare la disinformazione a un grado superiore. In attesa di interventi pubblici legislativi, spetta allo spirito creativo umano e alla capacità di reazione delle imprese contestarne l’egemonia.