IL GIORNALISMO PROFESSIONALE, BALUARDO CONTRO LE FAKE NEWS
Ai miei studenti dell’Università di Bologna, dove tengo il master di Cronaca giudiziaria, dico sempre che gli attrezzi del mestiere di giornalista sono le parole, per cui dobbiamo rispettarle molto più di quanto non facciano altri, anche se sono normale strumento di comunicazione, d’incontro e di scontro. Eppure, l’uso delle parole può essere la prima fake news. Nell’auto che ho parcheggiato fuori dall’hotel, ho gli stivali ancora sporchi del fango di Lugo, dove sono stato oggi, e, a proposito delle inondazioni che ho visto, potrei scrivere: “L’argine ha ceduto sotto la spinta di un’enorme massa d’acqua”; oppure: “Al primo urto dell’acqua l’argine si è sgretolato”; o, ancora: “L’argine si è sciolto nell’acqua”. Tutte e tre le frasi sono vere, eppure, nella prima l’argine ha fatto il proprio dovere, così come chi l’ha progettato, chi l’ha costruito, la politica che l’ha finanziato, chi ne ha controllato l’efficienza, in quanto ha ceduto soltanto sotto la spinta di un’enorme massa d’acqua. Nella seconda, la notizia ci fa pensare che l’argine c’era, ma non era tanto solido. Ma se dicessi, come nella terza frase: “L’argine si è sciolto nell’acqua”, a voi verrebbe in mente che quell’argine non valeva nulla. E, implicitamente, pur dicendo una cosa vera, avrei già dato un giudizio, avrei orientato l’opinione del lettore, pur non scrivendo una fake. È chiaro che l’obiettività e il distacco assoluti sono impossibili. Tuttavia, come diceva Gabriele Canè nel suo intervento, bisogna cercare di conservarli.
Faccio un altro esempio. Nel libro Ultime notizie dal diavolo di Dario Fertilio sono citati i servizi segreti come produttori di fake news. In realtà non occorrono menti raffinatissime, come diceva Giovanni Falcone, per produrre disinformazione. Sapete cos’è l’inchiesta Aemilia? È quella che ha indagato sulla ‘ndrangheta a Reggio Emilia, a Brescello e in tutta l’Emilia-Romagna. Si trattava di una cosca calabrese nata a metà degli anni ottanta, non paragonabile alla storia delle grandi cosche della piana di Gioia Tauro o di San Luca, ma relativamente giovane. Si trattava di ‘ndranghetisti di livello basso, tra cui molta manovalanza, che hanno attuato per tutto il processo, iniziato nel 2016 – di cui ho seguito più di trecento udienze –, una strategia di controinformazione e di disinformazione raffinatissima, pur trattandosi, ripeto, d’imputati di basso livello. Prima descrivendosi come un “branco” di muratori nullafacenti, vittime del razzismo del Nord, in quanto calabresi, poi, a un livello superiore, cercando di utilizzare me, come giornalista della testata più prestigiosa presente in aula, cioè la “Rai”, come loro legittimante. Mi hanno fatto dono di due scoop, visto che in un processo si parla di cose ormai conosciute ed è difficile avere delle “esclusive”. La principale novità in un processo di mafia infatti è l’apparizione di un pentito. Un giorno viene da me un ometto che mi dice: “Hai visto che sta venendo giù il muro? È sparito un mattone”. Naturalmente non avevo capito niente, anche perché nella “gabbia” del processo erano quasi in duecento. Poi aggiunse: “Ci manca Pino, si è pentito”. Dunque si trattava di Pino Giglio, primo pentito della cosca. Faccio una telefonata di verifica all’avvocato e vado in onda. All’avvocato chiedo se è ancora l’avvocato di questo Pino, e lui risponde di no. Infatti, quando uno “si pente” cambia avvocato, perché ci sono avvocati pagati dallo Stato, specializzati nella gestione dei pentiti. Dopo una settimana la stessa persona, che si chiamava Paolini, torna da me, un’al[1]tra va dal mio cameraman, dicendo: “Hai visto che manca Valerio?”, il secondo pentito. A questo punto mi sono interrogato: perché questi due “regali”? Quindi, oltre alla telefonata all’avvocato, faccio qualche verifica in più. Vado dal procuratore e gli chiedo: “È vero che avete due pentiti?”. “Sì, sono già nel programma di protezione”, risponde. Quindi, notizia tranquilla: infatti do la notizia del secondo pentito. Tre giorni dopo lo stesso informatore che mi aveva dato due notizie buone mi avvicina e mi dice: “Si è pentito Nicolino”. Nicolino Sarcone era considerato il reggente della cosca a Reggio Emilia. Quindi, un pentimento importantissimo. Grazie all’esperienza, ho cominciato a capire dove volevano arrivare. Salgo nel livello delle verifiche e chiamo il procuratore antimafia di Bologna, Giuseppe Amato. Gli racconto di questa notizia e, siccome non credo ai regali, gli chiedo quale può essere il motivo. Lui mi dice subito di fermarmi: “Costui ha dichiarato di pentirsi, ma lo escludiamo dal programma di protezione perché ci ha detto un sacco di bugie”. Mi avevano fatto due piccoli regali per legittimare il falso pentimento di costui. E questi sono muratori, precedentemente autori di piccoli furti. Quindi le fake news e la disinformazione esistono da sempre, e in molti sanno utilizzarle.
Poi Dario Fertilio descrive cosa accadeva nei regimi. Per esempio, la propaganda sovietica affermava che il capitalismo sarebbe crollato e che in Unione Sovietica si stava bene. Poi pensate ai libri del Don Camillo di Guareschi: erano tutti incentrati sul disvelamento di questa informazione sbagliata proveniente dall’Unione Sovietica. Vi ricordate, in particolare nel libro Il compagno Don Camillo, quando il prete si traveste e va in Russia insieme a Peppone?
Occorre che il giornalista che sta sempre “in strada” scriva utilizzando alcuni espedienti narrativi. Per esempio, quando ho cominciato, c’erano molte rapine in banca e bisognava scrivere articoli che introducessero ciascuna volta una novità, in modo che il lettore non li trovasse tutti uguali e quindi finisse per disinteressarsene.
Fertilio poi fa un’annotazione molto giusta, che ho sperimentato sul campo. È facile far credere al lettore una notizia falsa, quando questo non lo obbliga a mettere in discussione le proprie convinzioni. Mi rifaccio ancora ai processi sulla criminalità organizzata al Nord, allo stesso processo Aemilia. Già nel 1990 tutti i giornali locali parlavano di mafia al Nord, in particolare di ‘ndrangheta in Emilia-Romagna. Nei night club di Salsomaggiore, in provincia di Parma, gli ‘ndranghetisti entravano e non volevano pagare, ma per tenerli alla larga bastava assumere due buttafuori in più. Però nel 2015, quando li hanno arrestati, questi ‘ndranghetisti erano proprietari di tutti i night club delle provincie di Parma, Reggio Emilia e Modena: in un quarto di secolo erano passati da schiaffeggiati a proprietari. Eppure, già negli anni novanta i giornali locali avevano scritto che la ‘ndrangheta stava facendo affari con la coca nei locali notturni, ma nessuno se n’era interessato. Perché? Perché questo avrebbe comportato ammettere che probabilmente non siamo proprio i migliori, o che le nostre imprese non sanno difendersi. Andavamo, con la “Rai”, a riprendere i furgoncini che caricavano i muratori a giornata, pagati in nero, per portarli nei cantieri e le associazioni degli industriali dicevano che non era vero. Lo hanno detto anche a me. È difficile mettere in discussione quello che ci fa guadagnare, che ci fa stare tranquilli. Vi ricordate di Giuseppe Diana, quel parroco anti camorra cui hanno sparato in chiesa, alle otto di mattina, a Casal di Principe? Dopo qualche giorno uno dei giornali locali uscì dicendo che Don Diana era un camorrista e il giorno dopo il titolo era: “Don Peppe Diana è stato a letto con due donne”.
Quindi la disinformazione e le fake news ci sono sempre state, prima dei social. Noi, oggi, “vecchi” giornalisti diamo la colpa ai social semplicemente perché non abbiamo avuto il coraggio di controllarli e non abbiamo avuto la forza di confrontarci. Abbiamo lasciato una prateria in mano a tutti, mentre l’unica possibilità per mettere un argine all’informazione falsa è il giornalismo professionale, perché deve rispettare regole che altri non sono tenuti a rispettare. Ricordo che sono tra i migliori clienti dell’ufficio legale “Rai”, avendo avuto 35 cause, al secondo posto dopo Sigfrido Ranucci di “Report”. Tuttavia alla fine sono stato sempre assolto.
Per fronteggiare la disinformazione che viaggia sui social e che abbiamo visto in modo eclatante nel caso della guerra in Ucraina (con immagini persino tratte dai videogiochi spacciate per bombardamenti) ho fatto un esperimento per i ragazzi del mio corso di giornalismo: sono andato in un parco vicino alla mia città, Fidenza, mi sono messo un giubbotto con la scritta “Press”, mi sono buttato per terra, facendomi riprendere con il telefonino, poi ho preso immagini generiche di un elicottero, trovate su YouTube e, montate bene, con effetti e rumori adeguati, ho creato uno scenario di guerra: potevo averlo fatto a Kiev o a Bachmut: sarebbe stato uguale. Si può contraffare tutto, ma noi giornalisti veniamo denunciati, gli altri no.
Due sono le cose importantissime: una è l’obbligo della verifica e l’altra è insegnare a praticarla ai colleghi più giovani, magari abbandonando il mito della velocità. Oggi qualsiasi giovane che esce da una scuola di giornalismo vuole fare uno scoop e averne l’esclusiva, vuole essere il primo. Invece il nostro compito non è essere primi, ma dire la cosa giusta e farla capire. Abbiamo un nemico ancora peggiore rispetto alle notizie finte prodotte dai social o dai professionisti della disinformazione e si chiama “non tutela della libertà di stampa”. Se io, Luca Ponzi, fossi stato risarcito per tutte le querele da cui sono uscito vincitore per incauta querela altrui, avrei avuto un notevole guadagno. Così avremmo un giornalismo più coraggioso, che magari farebbe anche più fatica a farsi influenzare.
Concludo affermando ancora che l’unico baluardo – oltre al lavoro degli studiosi che aiutano noi giornalisti “amanuensi”, artigiani dell’informazione, a capire cosa stiamo facendo – è quello della difesa di un giornalismo professionale e professionistico, pur con tutti limiti che la nostra categoria esprime.