LA PAROLA È LA NOSTRA CONDIZIONE ORIGINARIA
Francesco Saba Sardi è stato autore di ottanta opere e ne ha tradotte quasi settecento. È un autore di difficile classificazione, impossibile inserirlo nel novero delle discipline accademiche. È un autore scomodo, misconosciuto, la sua opera è complessa per la sua inafferrabilità. L’opera di Saba Sardi rimane un caso a sé, è un unicum e in questa particolarità risiede la sua grandezza, l’enormità del suo valore e nello stesso tempo la sua difficoltà. Il libro L’onnifavola, azzardosa incursione nei recinti della semantica e della linguistica (Bevivino editore) è un libro straordinario ed è il completamento del lavoro svolto in Dominio che ha per tema il potere, la religione e la guerra. Queste opere elaborano il linguaggio del mito e il linguaggio della razionalità. Saba Sardi pone una distinzione fra Discorso e Parola. Parola che non è la verbalizzazione. Parola è da intendersi con la P maiuscola e sta a indicare tutte quelle attività originarie mitopoietiche che l’uomo compie fuori dalla sintattico-grammaticalità e che sono parte integrante del nostro stesso vivere come il gioco, la danza, la pittura, la musica. La Parola originaria non ha nessuna condizione di verità fuori dalla parola stessa. Non c’è un’ipostasi della causa, non c’è una causa sui extra parola, noi siamo parola. Saba Sardi affermerà “la parola che me parla”, lo ribadirà in diversi scritti, perché noi stessi siamo parola, siamo nella parola e questa parola non è possibile ridurla. Resta irriducibile a ogni sistema razionale.
Francesco Saba Sardi ha individuato nel passaggio dal Paleolitico al Neolitico il momento in cui, dalla condizione mitica (mitopoietica), l’uomo inaugura il Discorso razionale con la nascita simultanea della religione, del potere e della guerra, che altro non sono che le facce di uno stesso fenomeno, ovvero il Dominio.
È importante rammentare che Francesco Saba Sardi è stato un grande viaggiatore, ha percorso i vari continenti del pianeta frequentando sia le civiltà sia i selvaggi. Un lungo itinerario che gli ha permesso di indagare in una specie di viaggio nel tempo il momento in cui si è edificata la forma del dominio. Il passaggio dalla condizione mitica (simbolica) all’invenzione della ratio (letteralizzazione) ha il suo fulcro nella costruzione della città, che Saba Sardi indica come «scrittà». In questo passaggio avviene una riduzione della Parola, si passa dalla dimensione esclusivamente simbolica all’affermazione del letteralismo che è quello che noi riconosciamo come “sistema razionale”, cioè il potere, la misura, la misurabilità, la finitudine e il finalismo. Nell’opera di Saba Sardi questi due aspetti sono una pratica di tutta la vita: infatti i saggi sono scritti secondo la sintassi mentre le opere letterarie sono poietiche, nel senso della poiesis, cioè della produzione, del farsi della lingua e non semplicemente componimento letterario in versi. Il Dottor sottile è un enorme poema, un lavoro di costruzione del linguaggio dove protagonista è la lingua: si attraversa e si è trascinati dalla lingua. Nel Dottor Sottile Saba Sardi inventa tantissimi termini, inventa la lingua italiana, compone neologismi con il tedesco, con i dialetti italiani (li conosceva tutti), amava i grandi scrittori che noi oggi consideriamo dialettali, ma che in realtà sono scrittori in lingua come il Ruzzante, il Belli, Basile, e anche il Cinzio, con il suo Libro della origine delli volgari proverbi, una vera rarità, datata 1526, di cui Saba Sardi ha curato l’edizione per Spirali: un lavoro straordinario e beffardo capitato sotto la mannaia della censura e fortunosamente rieditato. Il Dottor sottile è un’opera che non permette al lettore nessun tipo di mediazione: “Il Dottor sottile è un lavoro in cui io chiedo al lettore di essere co-lettore, cioè di stare con me, di essere con me nella scrittura”. Se lo si riesce a leggere fino in fondo, è un libro che trasforma chi legge. È un libro che non finisce, rimane un’opera infinibile, dove il lavorio della lingua lavora il lettore. Leggendo, intendi ciò che prima non riuscivi a capire. Contano la lingua e il racconto, i personaggi non dominano il racconto, ne sono, invece, travolti.
La Parola è la nostra condizione originaria, coincidente con la vita stessa, consapevole e inconsapevole. Il Discorso è un “ramo staccato della condizione mitica”, della parola originaria, una sua derivazione. Tutte le volte che c’è un’invenzione, anche scientifica, che si presume essere razionalissima, la sua scaturigine è la follia, l’assoluta imprevedibilità della Parola. Tant’è vero che molto spesso è l’errore che fa trovare una nuova via e non il rigoroso ragionamento causale. La parola è causativa, ma non ha una causa sui prima del suo stesso apparire. In realtà, il potere per imporsi deve dominare la parola, storicizzando linearmente il punto di origine. E, dato che la verità metafisica è sempre da “scoprire” e non da “inventare”, i punti di origine, come ci insegna la fisica, cambiano a seconda delle epoche. Ri-narrando il punto di origine, si può determinare tutta la sequenza causale per far funzionare il dominio della parola all’interno di un sistema razionale. Il Discorso è una riduzione delle possibilità della parola originaria che è mitopoietica, quindi in grado d’inventare all’infinito dato che si situa nell’infinito. La riduzione della parola originaria alla logico-discorsività è sempre un fallimento della padronanza. Le due sfere restano inconciliabili e il disagio costellato di sintomi ne è il palesamento. La riduzione discorsiva (Discorso) tenta la padronanza e al contempo la parola sfugge sempre, motivo per cui il potere si situa come negazione della parola originaria, giocando a rendere funzionale la morte. La paura della morte deve apparire nella vulgata un potere totalizzante, un contro-vita, piuttosto che un’accidentalità facente parte dell’andamento della vita stessa.
La stessa distinzione che interviene fra Discorso e Parola, Saba Sardi la introduce anche fra Letteratura e Scrittura: “La letteratura è replica di ciò che si sa, che si è già visto, già sperimentato, è il notorio. La letteratura non rifugge tuttavia da sorprese grazie alla sua adiacenza con la scrittura (hanno in comune il graphein, ossia il disegno) che le trasmette con una certa insolenza. La letteratura dipende da azioni compiute, riguarda opinioni espresse; la letteratura entra nelle menti dei protagonisti, nelle loro narrazioni e ne rivela pensieri, emozioni, sentimenti, intenzioni. La produzione letteraria deve essere accessibile, utile, deve rifuggire in tutto l’oscurità, deve essere assolutamente comprensibile e deve essere fortemente educativa, nel senso che deve mobilitare costantemente. La scrittura, invece, ha la sua insopprimibile tendenza alla beffa, all’ironia, al rifiuto delle normo-regole, all’inattendibilità e tutti sanno che l’invenzione che coltiva l’abilità ed evita la menzogna, dichiarata tale da coloro che sanno, non è l’ampolla del vero, veste panni non suoi, si infila maschere che non appartengono a esseri in carne e ossa, inventa mondi inesistenti, è incontrollabile, produce testi scritti, verbali sonori, dipinti danzati, dichiarati senz’altro illeggibili.
La scrittura sta alla larga dalla metafisica travestita da approccio scientifico, sa che appartiene agli ambiti ecclesiastici e non sa cosa farsi della parola comune, la sa ormai impossibile, non piegabile, non declinabile al bisogno dell’espressione che è il ritmo ovunque presente, dal momento che sa recuperare la vietata dimensione dell’endogamia linguistica che è fatta dalle parole, che sono gli occhi vivi della segretezza, né ignora che gli unici pensieri-parole accettabili sono quelli che non colgono il proprio significato. Perché la scrittura è lingua parlata con sé stesso, ma in sé stesso non c’è, è la lingua della marginalità, la lingua dell’ascolto. Perché la scrittura non si scrive, non si registra, solo si trascrive. E mente sempre, spudoratamente. L’io non scrive non può farlo, bisognerebbe ingabbiarlo, dargli un nome, un numero, attribuirgli un sintomo” (L’onnifavola, cit).