LA FOLLIA, LA SCRITTURA, I POTERI

Immagine: 
Qualifiche dell'autore: 
brainworker, cifrante, presidente dell’istituto culturale Centro Industria

La follia, la scrittura, i poteri è il titolo del convegno nazionale intorno alla sterminata opera di Francesco Saba Sardi, del quale quest’anno ricorre il centenario della nascita. Fra i più straordinari ma anche fra i più misconosciuti autori del Novecento, Francesco Saba Sardi è autore di capolavori della saggistica come Sesso e mito, Nascita della follia, Il Natale ha 5000 anni, Il grande libro delle religioni, Dominio. Potere, religione, guerra, ma anche della narrativa come Il dottor Sottile, Orellana e Poco fa, altrove. Saba Sardi parlava e traduceva da sette lingue. Sue sono le traduzioni di centinaia di opere, fra cui Il mito della malattia mentale di Thomas Szasz, La nave dei folli di Sebastian Brant, Libro della origine delli volgari proverbi di Aloyse Cynthio de gli Fabritii e le opere di Jorge Luis Borges, per Spirali. Ha tradotto autori come Thomas Mann, Cervantes, Victor Hugo, Hermann Hesse, Tolkien, Goethe, Paul Klee, Bernard Shaw, Erich Fromm, Doris Lessing, ricevendo dalla Presidenza della Repubblica Italiana il Premio Nazionale per la Traduzione, nel 2007.

Saba Sardi ha vissuto di parola, nella traduzione, nella scrittura, nella prosa, nella poesia, nei racconti e romanzi. Parola originaria, parola senza impalcature sovrastrutturali. Egli scriveva: “I Ri-nascimenti… non sono mai occasionali. Si tratta ogni volta dell’avvertita impellenza di riaffermazione del mitico… Della riaffermazione della Parola. Parola che è senza origine in quanto originaria, in quanto non rinviabile a una realtà extralinguistica, e pertanto non iscrivibile nel sistema del significato e del principio di padronanza. Ma i tentativi di farne res, oggetto manipolabile, si sono costantemente ripetuti e anzi, moltiplicati, oggi sopra tutto, con il concorso di quello che vorrei chiamare cerebrobiologismo… Perché il Discorso, che è ratio, che è gnosi, che è episteme, ha avuto, esso sì, un’origine” (Il secondo rinascimento nel pianeta, Spirali, 2004).

Di questo poeta dissidente del secondo rinascimento si narra che, nella sua pratica di scrittura, era quasi come “forzato” da una tensione incessante a scrivere, e, in questa scrittura, a restare poeta errabondo “oltremodo scomodo”, “anarchico-eretico onnivoro e dissacrante”, secondo le parole della poetessa Gabriella Landini. Nella sua scrittura, Saba Sardi non cercava la luce della verità illuministico-romantica, ma intraprendeva un viaggio su quella “nave dei folli” che lo ha portato a incontrare Armando Verdiglione e a tradurre il testo del 1494 La nave dei folli, di Sebastian Brant. La nave dei folli è un libro moralistico in lingua tedesca che ebbe grande risonanza nella Germania del 1494 e varie ristampe, poi tradotto in latino, francese, inglese, olandese fino al 1625, con riedizioni nel 1800 e poi, nel 1984, nell’edizione unica e rara di Spirali.

Nel suo testo, Brant, integerrimo cattolico e devoto sostenitore della causa dell’impero germanofono (inteso come guida eletta del mondo cristiano), propone una “sfilata di carri allegorici” e maschere di folli, ovvero dei matti, degli stolti, degli “scherzi di natura”, dei buffoni di corte, dei clown che rappresentano tutti i mali e la follia inestirpabile del mondo. È allora necessario per Brant parlare al “volgo” attraverso la satira, per esortare i suoi lettori a vivere secondo una morale severa. La “follia” di Brant è sinonimo di “peccato” che richiede la purificazione. Per questo Brant sembra evocare la rappresentazione della vacuità della follia, la sua assenza di direzione, come avveniva per i folli affidati alle navi, che viaggiavano senza meta perché destinate a “naufragio definitivo”. In questo viaggio purificatore, Saba Sardi coglie molti riferimenti alla figura dei “matti quaresimali” del Carnevale altorenano, a cui Brant dedica alcuni capitoli del suo libro.

Il Carnevale nasce come festum fatuorum medioevale, come “aperta parodia della religione, cerimonia grottesca e dunque violenta”, scrive Saba Sardi nell’introduzione, in cui anche “i preti… si eccitavano a tutte le follie”. Questo festum non era ancora come la festa del Carnevale di oggi. Lungo la redazione della Nave, la follia di Sebastian Brant “cessa di essere tutt’uno con Peccato”, per accostarsi alla nozione di “demenza”: il demente ha “di Re del Carnevale la corona”. E “folle” diventa lo status deviationis.

Sebastian Brant scrive La Nave dei folli nel cosiddetto tardo medioevo, ovvero quando sembra concludersi l’epoca della superstizione e della magia cui ricorreva il “mondo rurale”, mentre la città diviene sempre più la sede ideale della vita dell’uomo. “Per gli abitanti di città laboriose e ordinate, in gran parte libere da condizionamenti feudali, il fool era una sopravvivenza che proprio per questo poteva assumere una funzione di nuovo tipo, grazie al fatto che si vedevano ormai le cose e parte civitatis, che il metro di misura era quello urbano. È indicativo che nel Quattrocento si sia imposta, in Inghilterra, l’immagine del clown (dal latino colonus, contadino). La Buffoneria, in altre parole, venne in pratica espulsa dalle corti e relegata nelle campagne…, entro le mura non doveva esserci più posto per l’eccesso”, scrive Saba Sardi nell’introduzione. La campagna, la selva erano la sede del folle in attesa di essere “finalmente redento, cristianizzato secondo la nuova concezione del cristianesimo che si era fatta l’Umanesimo. (…) La parabola è dunque questa: nel giro di poco più di un secolo, dall’intolleranza tardo cattolica di Brant nei riguardi della follia, tutt’uno con il vizio, si è passati alla tolleranza di Erasmo” ovvero alla “messa al bando della diversità, istituzione del grande ghetto, carcere cellulare, cura medica dei matti, invenzione della psichiatria, della sociologia, dell’antropologia: grammaticalizzazione del mondo, in una parola, le cui premesse sintattiche vanno cercate, oltretutto, in quell’esemplare trattato di mattologia che è La Nave dei folli”.

I folli hanno sede fuori dalle mura della città, che ha la funzione precipua di difesa da tutto ciò che non si uniforma, che non risponde alla norma e alla ragione. Eppure, scrive Saba Sardi, la città che nasce come “esorcismo contro la selva”, “che si dà mura”, moltiplica i pericoli che vorrebbe escludere e, per esempio, accade di perdersi nei suoi vicoli, cunicoli e viali sterminati, non risparmia dai luoghi malfamati e cresce in senso verticale, producendo “vertigine”. “La città che pretende di rifare il cosmo all’interno di limiti scelti è in effetti uno specchio frantumato. Essa non sfugge alla labirinticità, anzi la moltiplica e la esaspera”. Nella città non c’è più posto per il giullare, perché è tutto funzionale. Questa città è però la città spaziale, è la città delle mura, è la città segregativa della follia, dell’anómalos, del non uguale. Esplorando la follia, Saba Sardi giunge alla questione della città.

La città segregativa non è la città del secondo rinascimento, la città dell’arte e dell’invenzione, la città planetaria, che non ha luogo, e in cui interviene il giullare, come quello che scommetteva sull’intelligenza del re, del principe, della corte, attraverso favole, filastrocche e racconti. Scrivendo, Saba Sardi constata che resta ineludibile la follia nella parola: follia, punto di oblio che non si assoggetta al canone dell’uniforme. Saba Sardi annota: “folle, da follis, mantice: il pieno di vento (il diavolo, in certe xilografie della Nave, appare armato di un enorme soffietto), il vacuo, il vuoto”. Coglie in questo modo che il punto vuoto e il punto di oblio nella parola dissipano l’idea del soggetto, perché sfuggono alla padronanza e alla sua idea di unità. Quindi, con la parola, la città non fa sistema ma procede dall’apertura, ha la sua condizione nella follia e nel rigore del punto insituabile, non del soggetto matto o rigoroso.

La città, con la parola, non è più spaziale, non è la città malinconica, la necropoli. Città del tempo, non dipende dall’etica protestante, per cui non è la città del bene o del male, non è sottoposta all’idea di salvazione o di perdizione. La città del secondo rinascimento è la città in cui la follia non ha da essere segregata. È la città che non ha più bisogno di rappresentare la follia nel matto, perché la follia interviene parlando, interviene per un oggetto e per una provocazione che sono nella parola e che non si assoggettano.

Negli atti del congresso mondiale di cifrematica Ilsecondo rinascimento nel pianeta (Milano, 28-30 maggio 2004), Francesco Saba Sardi scrive: “I tentativi di trasformare la Parola in oggetto, di attribuirle un senso, di inserirla nel novero delle cose utili, si sono rivelati sempre vani. Al mito non ci si può sottrarre”. Ecco la funzione dei giullari, dei “matti di corte”, che pure venivano esibiti dal potere come dipendenti delle volontà del sovrano. Rispetto alle pretese monopolistiche, questi giullari intervengono con favole, sonetti, versi, poesie e filastrocche, che procedono dall’ironia, fino al riso. Dinanzi a questo riso, nulla può la progressiva riduzione del mondo alla razionalità produttiva: il mito è intoglibile dalla parola, ne costituisce la trama, il respiro, resta avvincente e non vinto dal potere e dalla “gabbia della logico-discorsività”. Nella parola la direzione è altra da quella della Nave dei folli di Brant, che invece ha bisogno del sistema per non smarrirla. Del viaggio della parola, con i dispositivi del secondo rinascimento, importa la navigazione verso la cifra della vita.