CHI DIVIENE COMPAGNO DI VIAGGIO NELL’IMPRESA

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presidente di TEC Eurolab, Campogalliano (MO), di ALPI e di EUROLAB

Quanto contano l’entusiasmo e la tensione verso la qualità nel processo che porta un collaboratore a divenire compagno di viaggio, anziché mantenere un approccio da dipendente?

Che cos’è l’entusiasmo? Per esempio, c’è chi si dichiara entusiasta del lavoro che sta svolgendo o della partita che sta giocando e, se ci sono più persone entusiaste nello stesso modo della stessa cosa, alimentano lo “spirito di squadra”. Che cosa è lo spirito di squadra? Come si passa dall’approccio da dipendente a quello da compagno di viaggio? Nel mezzo c’è lo stadio del collaboratore e ciascuno stadio è regolato da un entusiasmo differente. Il dipendente è colui che rispetta il contratto di lavoro e le regole interne e svolge bene il proprio compito. Se riesce ad aggiungere l’entusiasmo, il piacere per il proprio lavoro e un senso di responsabilità, perché capisce che, svolgendo bene il suo lavoro, aiuta anche chi lo prosegue dopo di lui – un collega o il cliente –, allora, si può definire un collaboratore.

Diventare compagno di viaggio comporta un passo ulteriore: intendere che ciò che sto facendo non è soltanto la produzione di un oggetto o di un servizio, ma anche la “costruzione” della propria dimensione intellettuale nei dispositivi aziendali e nella società. Parafrasando il filosofo Giambattista Vico: “Gli umani esistono in quanto fanno, non in quanto sono”. Tant’è vero che qualsiasi persona entri nella nostra azienda, quando esce, ha acquisito elementi che prima non aveva. E questo indipendentemente dai corsi di formazione che ha seguito: facendo, lavorando, parlando con gli altri, ha aumentato la propria dimensione intellettuale. Inoltre, il suo entusiasmo può crescere se egli intende la portata delle acquisizioni che intervengono incontrando altre persone: più persone incontra, più competenze acquisisce, più aumentano i suoi gradi di libertà, nel senso che può andarsene quando preferisce e, se non lo fa, è perché è orgoglioso di lavorare in un’azienda che, con il suo piccolo o grande contributo, fa del bene alla società, direttamente, risolvendo un problema al cliente, rendendo più competitivo il suo prodotto, oppure contribuendo alla crescita del territorio, per esempio, sostenendo attività culturali, sociali o sportive. Quindi il compagno di viaggio è chi fa bene il suo lavoro, sta bene nell’azienda in cui lavora e fa il bene per la comunità. E fare il bene per la comunità credo che possa chiamarsi “etica”.

Finora abbiamo parlato di aspetti intangibili, ma ce ne sono altri più tangibili che possono andare a detrimento dell’entusiasmo, cose a volte del tutto banali che riguardano la trascuratezza e l’incuria nel posto di lavoro: stare bene ha a che fare con l’aria che respiriamo, con la luce, con la pulizia, ma anche con le relazioni, con l’ambiente di lavoro. Se vogliamo aumentare l’entusiasmo, dobbiamo instaurare la cura e combattere qualsiasi forma d’incuria, di trascuratezza o di negligenza. Sono cose che a volte possono trasformare persone che entrano in un ambiente piene di entusiasmo in persone mummificate in pochi mesi. Ma questo non vale soltanto per l’ambiente interno alle aziende, dobbiamo combattere anche ciò che sta al di là del cancello, il bombardamento continuo di notizie negative: le guerre, le carestie, le bombe, i terremoti e, più recentemente, la Great Resignation. Dove andranno mai tutti coloro che si dimettono? Lasceranno un’azienda per andare in un’altra, spesso senza un perché, ma “tanto per cambiare”. Cambiare cosa? Perché cambiare? “Mah, ho fatto sempre questa cosa, adesso voglio provare qualcos’altro”. Va bene, però non hai un obiettivo, se cambi tanto per cambiare.

Cambiare sembra diventato un must: cambiare moglie, marito, fidanzato, azienda, città. Anziché la trasformazione, si esalta il cambiamento…

Infatti, il cambiamento non è la trasformazione. Il processo che porta da dipendente a compagno di viaggio è una trasformazione continua, un miglioramento, un ampliamento delle relazioni che genera maggiori gradi di libertà e porta alla qualità dell’ambiente di lavoro e magari a dare un contributo, piccolo o grande che sia, alla coesione sociale anche all’esterno.

Negli anni del dopoguerra, nel periodo del boom economico, che è stato boom solo per alcuni, il posto di lavoro era qualcosa che dovevi tenerti stretto. Ma questo valeva anche nel Settecento, durante la rivoluzione industriale, quando i lavoratori erano veramente schiavizzati. Alle fonderie Orsi, poteva accadere che, quando uscivi dal tuo turno, vedessi il tuo libretto di lavoro legato attorno al freno della bicicletta, allora capivi che il giorno dopo non dovevi tornare a lavorare. Eravamo negli anni trenta o quaranta, non nell’Ottocento. E anche oggi leggiamo sui giornali a proposito dei licenziamenti via WhatsApp o via Sms. Non è cambiato molto, anche se non è più come una volta, quando il posto di lavoro ti serviva per portare a casa il pane per la famiglia, mentre adesso, fortunatamente, ci sono persone che possono usufruire dei sussidi statali nei periodi in cui rimangono disoccupati.

Allora occorre qualcos’altro per alimentare l’entusiasmo per il lavoro e l’identificazione rispetto all’azienda in cui si lavora. Ma chi e che cosa può fornire gli strumenti per accrescere questo entusiasmo? La famiglia? La scuola? Non bastano, dev’essere l’impresa, ancora una volta, a fornirli, dev’essere l’impresa a investire sulla cultura, sull’incontro e sui suoi effetti per le persone che essa coinvolge nel suo viaggio. Abbiamo sempre il coraggio di fare investimenti di un milione di euro su un’idea imprenditoriale, convinti che andrà bene, e poi, se ci viene proposto un corso di formazione culturale per qualche migliaio di euro, tergiversiamo, crediamo che siano chiacchiere senza valore, che per giunta portino via tempo prezioso ai collaboratori e aggiungano ai costi vivi quelli della mancata produzione. Così, dimentichiamo che i collaboratori non sono macchine, sono viventi, che continuano a respirare anche mentre lavorano. Una macchina funziona, un umano non può “funzionare”, perché la vita non è rappresentabile o localizzabile: dov’è la sede della vita? Nel cuore? No, il cuore da solo non basta e neanche il fegato o qualche altro organo preso separatamente. Quindi ciò che funziona per gli umani è arbitrario, non si può stabilire una volta per tutte: a volte basta una parola, un tono di voce differente e si sbloccano situazioni che sembravano arenate da tempo. Certo non è facile far capire alle persone che non sono loro a funzionare. Molti si svegliano la mattina, preparano la colazione, sistemano la casa, portano i bimbi a scuola e compiono i loro gesti come se facessero parte di una routine. Allora tutto sembra funzionare, perché la mattina quando la tua famiglia si sveglia trova la colazione pronta, poi magari non scambi una parola né con tuo marito né con i tuoi figli, però la colazione è pronta. E noi abbiamo molti funzionari, soprattutto nel pubblico, ma anche all’interno delle aziende. Per diversi anni avevo l’idea che la mia azienda non mi piacesse, nonostante ne fossi e ne sono orgoglioso, però dicevo che c’era qualcosa che non funzionava. E invece era esattamente il contrario: c’era qualcosa che funzionava troppo.

Adiacente alla funzione c’è la variazione, per cui lavoro e gioco sono simultanei, nel lavoro c’è gioco e nel gioco c’è lavoro, non sono compartimenti stagno in alternanza e in alternativa. Il funzionario è chi assume la funzione senza la variazione…

Da tanti anni m’interrogo intorno a questi temi. Per esempio, mi sono chiesto perché dovessi arrabbiarmi se durante l’orario di lavoro un collaboratore fa una breve telefonata extra-lavorativa. Se la stessa persona non è fanatica della work-life balance, magari mentre porta il figlio a girare in giostra pensa alla soluzione di un problema che deve affrontare il giorno dopo. Sono riflessioni che mi hanno portato a introdurre in azienda qualche variazione e soprattutto maggiore flessibilità, oltre a un numero considerevole di iniziative mirate ad aumentare la dimensione intellettuale delle persone che lavorano con noi. Se si riesce a fare in modo che ciascuno punti a divenire compagno di viaggio, anziché funzionario, allora, nelle aziende si possono instaurare una nuova forza, un nuovo impulso e un nuovo entusiasmo.