L’INDIA: UN’OPPORTUNITÀ PER L’ITALIA DA COGLIERE SUBITO

Immagine: 
Qualifiche dell'autore: 
ingegnere, general manager di Clevertech Group Spa, Cadelbosco di Sopra (RE)

Oltre alle filiali in Francia, Regno Unito, Nord America, Cina e Polonia, dal 2019 Clevertech Group ha anche una sede in India, che lei è andato a visitare in ottobre. Che cosa può dirci del suo viaggio nella patria di Gandhi?

Proprio nell’area urbana della città di Pune, dove abbiamo aperto la nostra sede, si trova il famoso Palazzo dell’Aga Khan (a Yerwada), in cui il Mahatma Gandhi venne tenuto agli arresti domiciliari, durante la seconda guerra mondiale. Nel mio viaggio – che era stato programmato per l’inizio del 2020, ma che purtroppo ho dovuto rimandare a causa della pandemia – sono rimasto sorpreso dalla differenza rispetto al paese che avevo visto quindici anni fa, quando la povertà era ancora molto diffusa e distribuita ovunque. Oggi è limitata ad alcune aree ben circoscritte, mentre la maggior parte delle zone industriali e residenziali si è sviluppata in modo incredibile: ciascuna delle città più importanti – come Porbandar, la capitale del Gujarat, Mumbai, Goa, ex protettorato portoghese, e la stessa Pune – ha aeroporti moderni, collegamenti stradali e ferroviari efficienti e sta costruendo metropolitane sopraelevate. Sui giornali inoltre abbiamo letto che il ministero delle infrastrutture ha in programma la costruzione di una rete autostradale gigantesca, un’opera grandiosa, favorita dal fatto che i lavori in corso vanno avanti al ritmo di circa quaranta chilometri al giorno, perché gli indiani hanno una gran voglia di lavorare e sono veramente pieni di entusiasmo. Basti pensare alle risposte che ci hanno dato nei colloqui di assunzione alcuni giovani provenienti da Delhi, che si trova a circa ottocento chilometri da Pune: quando chiedevamo se la distanza fosse un problema, ci rispondevano che in una settimana sarebbero stati in grado di organizzare il trasferimento di tutta la famiglia, perché considerano molto interessante lavorare a Pune.

In questa città hanno insediato i loro hub parecchie industrie europee e americane, che possono avvalersi di capitale intellettuale altamente specializzato nelle tecnologie informatiche, giovani che parlano un inglese perfetto e sono instancabili.

Gli stessi nostri dipendenti – sia softwaristi sia meccanici – sono estremamente disponibili, tant’è che stanno seguendo anche le nostre installazioni in Cina, in Giappone e in Indonesia e non hanno mai posto alcuna difficoltà rispetto alle trasferte.

La grande disponibilità di capitale intellettuale qualificato è uno dei motivi per cui abbiamo scommesso nella costruzione di un hub strategico a Pune che, oltre a seguire il mercato interno con cui stiamo già interagendo, ci aiuterà a far crescere l’assistenza tecnica in tutti i paesi del mondo, insieme agli altri due hub in Italia e in Messico. E forse sarà più efficiente dell’hub in Cina, che avremmo voluto lanciare molto di più di quanto non abbiamo fatto dalla sua apertura, perché la Cina si è rivelata molto rigida e poco ricettiva rispetto al business europeo. Non solo, nelle commesse che abbiamo ricevuto dall’Iran, dalla Thailandia, dal Giappone e dall’India stessa, non accettano che gli impianti siano costruiti in Cina, nonostante il know-how sia italiano.

Com’è sorto il vostro interesse per l’India?

Tre anni fa, mentre stavamo valutando l’opportunità di un mercato in così grande fermento, abbiamo avuto la fortuna di assumere un tecnico indiano che aveva acquisito un’esperienza notevole nel settore dell’automazione industriale, lavorando per un grande gruppo tedesco con uno stabilimento all’avanguardia nel Gujarat. È stato lui a convincerci ad aprire una filiale, che tuttora gestisce insieme alla moglie, con ottimi risultati.

Nel libro di Federico Rampini del 2008, La speranza indiana, avevo avuto l’impressione di un paese che, nonostante si stesse avviando a uno sviluppo straordinario, manteneva un’atavica lentezza, soprattutto nelle istituzioni, appesantite da una burocrazia estremamente rigida. Oggi invece devo dire che l’immagine dell’India è molto più simile a quella della società americana, quella di un paese dinamico che sta cercando di mettersi alle spalle ogni arcaismo. Noi, per esempio, siamo riusciti ad aprire la filiale in pochissimo tempo, forse anche perché avevamo già programmato le prime assunzioni del personale e le attuali istituzioni indiane favoriscono il lavoro. È così che oltre duecento milioni di persone sono usciti dalla povertà, in un paese con un miliardo e mezzo di abitanti. Si avverte una forte spinta verso la crescita in tutti i settori e c’è una grande accoglienza per gli europei: i nostri clienti, per esempio, ci ricevevano fino alle sette di sera, anche perché tra l’altro molti lavorano fino alle nove, se occorre. Quindi credo che per l’Italia sia veramente un’opportunità da cogliere subito.

Nel romanzo La tigre bianca, Aravind Adiga narra con sarcasmo la storia di un imprenditore indiano “corrotto e malvagio”, che aveva messo in piedi alcune società di outsourcing che “fanno andare avanti l’America”...

Siamo alle solite: se un personaggio è imprenditore, non può che essere “corrotto e malvagio”. Molti purtroppo dimenticano che l’impresa, il commercio e il lavoro hanno sempre portato benessere e hanno consentito agli umani di uscire dalla povertà e di svincolarsi dalla schiavitù della terra, nonché dai conflitti che ne derivano.