IL CITTADINO È PIÙ ENERGIVORO DELLE IMPRESE
Tutti pensano che le tecnologie digitali consumino poca energia. Ma non è così: i social media (il reale strumento di distanziamento sociale: altro che il Covid!), le e-mail inutili, i messaggi di WhatsApp consumano molto. La stessa auto elettrica consuma più energia: l’auto che inquina meno e richiede meno energia è quella che ho già: produrne una nuova e smaltirne una vecchia richiede molta energia.
I dati ci dicono che il consumo residenziale di energia è oltre il 20% del totale, e che si mantiene costante, indipendentemente da qualunque crisi economica o energetica.
Dai nostri comportamenti si evince che consumo energetico e inquinamento sono
problemi di consapevolezza: il cittadino vede quello che paga in bolletta e non
vede, per esempio, che quando acquista un’automobile sta pagando l’energia
impiegata per produrla; non vede che, quando paga i servizi internet, non sta
usando solo l’energia che paga in bolletta ma anche l’energia, di gran lunga
superiore, dei centri di calcolo sparsi nel mondo. L’energia che consumiamo non
è quella che
paghiamo.
Sommando il consumo diretto e quello indiretto, emerge che il cittadino è più energivoro delle imprese.
In particolare, l’energia legata al digitale vede il 20% dell’energia consumata a carico dei centri di calcolo. Sono azioni che consumano tantissimo ma più per l’energia dei centri di calcolo che non per il dispositivo che usiamo. Non solo: la quantità di oggetti attaccati alle reti e legati al digitale, ossia oggetti che consumano energia, sta crescendo del 67% all’anno. L’inquinamento delle acciaierie sarà ridicolo rispetto all’uso dei dispositivi digitali.
La tabella riportata è molto eloquente: guardare un video con internet richiede la stessa quantità di energia che usiamo con un forno elettrico per trenta minuti; addirittura, una transazione con Bitcoin,che richiedono l’aggiornamento di una blockchain, consuma 1400 volte di più. Per acquistare un NTF (Non Fungible Token) consumo 82 kilowatt; una e-mail consuma in media soltanto 5 watt, ma se ne invio trenta al giorno, consumo in un anno 50 kilowattora.
Oltre all’aspetto dei consumi digitali, c’è quello dei rischi energetici, connesso alle reti. Ci sono diversi tipi di reti, quelle simili alle reti autostradali, in cui sono connessi tutti i punti, e quelle che hanno dei punti di accumulazione, come le reti del traffico aereo, con pochi grandi hub e tanti piccoli aeroporti. Le reti elettriche assomigliano ai secondi, e la teoria dei sistemi ci dice che i punti di accumulazione diventano critici. Senza entrare nei dettagli, gli andamenti delle catastrofi nel mondo delle reti elettriche, dagli anni Sessanta fino a oggi, evidenziano un accumulo di incidenti tra il 2000 e il 2005. Poi, probabilmente per un cambiamento nelle tecnologie, gli incidenti sono diventati più rari. Ma, mentre prima un incidente toccava 1000 persone, adesso ne tocca centinaia di milioni, come il blackout avvenuto in India nel 2012. Se in un’area di 600 milioni di persone cessa il funzionamento di un ospedale, le conseguenze possono essere molto gravi.
Come per il caso dei prodotti, c’è un fenomeno di consumismo anche nell’energia elettrica. Ma, mentre è visibile il costo dell’abbonamento telefonico per uno smartphone, non lo è quello dell’elettricità correlata: tale consumo è nascosto dentro un pacchetto di servizi.
Poi, quando l’energia incomincia a mancare, arrivano le catastrofi.
Anche per questo l’economia si sta spostando dal prodotto al servizio. Perché devo comperare un oggetto, se a me interessa il servizio che quell’oggetto mi dà? Perché devo comprare un’auto, cioè un bene, se a me serve qualcosa che mi trasporti, cioè un servizio? Io voglio consumare il servizio del trasporto e lo voglio pagare, assicurazione compresa, per quanto lo uso. La Rolls Royce produce motori per aereo (non vive certo di macchine di lusso), ma le compagnie aeree sono orientate sempre più ad affittarli che ad acquistarli, perché così la Rolls Royce ne misura i consumi, le modalità di usura e ne può monitorare in modo preciso la resa, allungandone il più possibile la vita, aumentandone la qualità e riducendo il numero di pezzi che produce. Un minor consumo di materie prime non significa certo minori guadagni, in quanto i costi di produzione si riducono e i margini aumentano.
Questa è la direzione in cui stiamo andando, lo dimostrano la capillarità la potenza delle nuove reti informatiche, che, pur avendo comunque un costo associato a tali aspetti, ci daranno la possibilità di attingere a una quantità di dati impressionante e di elaborarli, così da avere miglioramenti di prestazioni e riduzioni di sprechi.
Nell’industria, la tendenza è quella di avere dei gemelli digitali, modelli realizzati digitalmente su computer, in modo che, quando qualcosa non funziona, sia possibile verificare problemi e trovare soluzioni nel gemello digitale, che, è vero, ha un costo di produzione nullo e un costo di progettazione enorme, ma si progetta una volta sola.
Ma tutto ciò non serve se non consolidiamo una componente rilevante del problema, che oggi mi pare fortemente trascurata: la nostra consapevolezza, la nostra capacità critica.
Circa centomila anni fa l’homo sapiens ha incominciato il suo viaggio sul pianeta, fino a colonizzare il mondo attraverso vari insediamenti, che hanno permesso scambi e commerci, ma anche guerre e invasioni, che però hanno avuto l’effetto collaterale di trasportare cultura, informazioni e tecnologia. In questa evoluzione, c’è stato un momento particolare: la sostituzione dell’energia muscolare con quella delle macchine. Questo ha permesso di aumentare moltissimo la capacità produttiva, soddisfacendo così le esigenze della classe media, a un punto tale che i progressivi miglioramenti hanno portato a eccessi di produzione. Per mantenere attive le imprese e continuare a vendere è stata inventata una “tecnologia” nuova, il consumatore, costruendone i bisogni e omologandoli. Proseguire in questa direzione è come guidare guardando solo nello specchietto retrovisore: “Questo l’ho sempre venduto e lo venderò ancora, tanto basta convincere la gente. Perché dovrei innovare?”. Quindi, serialità e non prototipazione. Quello di cui abbiamo bisogno non è un piano di resilienza, ma un cambiamento responsabile, un piano di innovazione, ma di innovazione di cervello: l’industrial brain di questo convegno. Ma in ciascun ambito della formazione: dalla scuola alla politica, al lavoro e occorre che intervenga per ciascuno di noi.
La scuola, per esempio, oggi è organizzata su programmi professionalizzanti, perché tutti hanno paura di non avere lavoro. Risultato: si inizia un percorso scolastico e si va all’università per apprendere nozioni di un lavoro che, una volta laureati, sarà scomparso completamente, sostituito dall’automazione. Bisognerebbe insegnare, invece, a progettare il proprio futuro.
Al contrario, il modello scolastico tende sempre al successo e alla competizione nel lavoro, benché modelli di imprese virtuose, come l’EFQM, da decenni suggeriscano di considerare come valore non solo i risultati economici, ma anche il rispetto dell’ambiente e la soddisfazione del cliente e del dipendente.
Eppure, il consumismo surroga la necessità di autorealizzazione. Con riferimento alla pur vecchia, ma saggia, piramide di Maslow con tutti i livelli di crescita fino all’autorealizzazione, la nostra società sta puntando a sopperire ai livelli fisiologici, invece di andare in una direzione in cui tutti ci sentiamo realizzati. Quello che manca per perseguire giusti valori è la cultura.
Ecco la rilevanza di un convegno come questo, perché qui non stiamo parlando di aspetti tecnici. E la maggioranza di noi non uscirà da questo convegno con nozioni tecniche da applicare nel lavoro, ma con una visione del mondo: una cultura che non è la capacità di conoscere e fare citazioni, ma di raccogliere informazioni e di poterle correlare in modo da influenzare la vita di una società attraverso un insieme condiviso di valori. Peccato che persino l’ONU definisca 17 goal di sostenibilità, ma non consideri la cultura. E senza cultura che sostenibilità vogliamo avere? Noi abbiamo bisogno di una visione rinascimentale al cui interno sia inglobata anche la tecnologia. Questo bisogno, che iniziative come quella di oggi tendono a soddisfare, mancano totalmente nella scuola. Nel mio studio ho una parete della memoria, in cui ogni tanto incollo un oggetto, un articolo di giornale, qualche fotografia, le cose che io considero rilevanti. Di tanto in tanto le ricopro con una mano di resina, perché devono cristallizzare, come insetti nell’ambra. Ho un articolo di Pier Paolo Pasolini dell’ottobre del 1975 dal titolo “Abolire la televisione e la scuola dell’obbligo”. Lui aveva già capito.