IL GIOCO DEL FARE SI CHIAMA INTELLIGENZA
Nella mia ventennale esperienza di educatrice e oggi anche di direttrice di asilo nido, il Piccolo Gruppo Educativo Giardino del tempo, ciascuna giornata si svolge lungo dispositivi differenti e vari, dispositivi organizzativi, nutrizionali e formativi. Ciascuno di essi esige il gioco. Sono dispositivi pragmatici e di ricerca, in cui emerge come il gioco e il lavoro non si oppongano, ma siano due aspetti dell’arte, essenziale per l’insegnamento e l’istruzione.
Nessuno sa cosa sia il gioco, nemmeno i bambini. Essi non si pongono la questione, perché facendo, giocano. È il discorso pedagogico, invece, a insistere sulla domanda “Che cos’è il gioco?”, a definire il gioco come un’attività naturalistica del bambino e come “strumento” da utilizzare per condurlo a sviluppare le “capacità comunicative” e “interpersonali”, insegnandogli a “gestire e dominare le proprie emozioni”. Inteso in questi termini, il gioco sarebbe strumento della padronanza, di sé, del bambino e poi dell’educatore “sul” bambino. Questa idea di gioco tende a chiudere il bambino in schemi prefissati, giustificati dalla finalità di consentirne il “normale” sviluppo, in modo che “impari a socializzare” e divenga adulto, ovvero si uniformi alla convenzione sociale.
Nella mia ricerca ho constatato, invece, che nessuno impara a socializzare e a comunicare, nessuno impara a normalizzarsi. Quando i bambini giocano non stanno a pensare, sono presi nella ricerca. Nella nostra struttura, abbiamo predisposto una grande bottega a misura di bambino, dove ciascun giorno si tiene il mercato. Nella bottega c’è anche una piccola cassa, provvista di monete in cartoncino e soldi di carta. Nel luogo comune, non è consentito che i bambini giochino con i soldi, c’è un tabù, insiste ancora la dicotomia fra bambino puro e soldi sporchi. Ma in questo piccolo mercato non c’è dicotomia puro-impuro, i bambini trovano e poi scambiano oggetti differenti e vari. Ciascun giorno è in atto lo scambio, non soltanto degli oggetti ma anche della parola: alcuni bambini imparano a parlare proprio giocando al mercato. L’idea è nata perché più volte avevo notato che le mamme portano i bambini al mercato, ma, mentre acquistano, non li coinvolgono nella loro esperienza. È essenziale che nell’attività educativa non ci siano tabù, che l’esperienza originaria del bambino non sia limitata da idealità.
Lo scambio non è la condivisione, perché non può mai partire dall’idea di parità. L’idea di condivisione, invece, presuppone lo scambio fra uguali. Ma i bambini incominciano a giocare proprio per qualcosa d’ineguale, d’impari che interviene. Cosa vuol dire, poi, condividere? La condivisione sottopone il fare all’idea dell’Altro non si attiene all’atto di parola come atto arbitrario, perché chiaramente sarebbe ammettere un’anomalia. La condivisione impedisce il fare, perché è l’idealità della maggioranza. Oltre al fare, anche il ragionamento è impedito: se alla maggioranza è piaciuta l’idea di qualcuno, ognuno deve applicarla senza ragionare. Le proposte della cosiddetta minoranza sono escluse automaticamente, come l’anomalia e la novità, che sono specifiche dell’insegnamento e della formazione nel Giardino del tempo.
Alcuni mesi fa ho chiesto ai nostri educatori di preparare la sala in modo che i bambini potessero dipingere, per cui alcuni di loro hanno disposto ordinatamente sul tavolo tutti gli strumenti che occorrono per la pittura. Ma nessuno dei bambini chiamati si è dimostrato interessato. Allora, sono intervenuta lanciando sul prato del giardino una manciata di colori, che, cadendo, si sono disposti casualmente. Subito tutti i bambini sono accorsi, ciascuno nel suo modo, chi gattonando e chi camminando, e hanno incominciato a utilizzare i colori in modo particolare a ciascuno: chi dipingendosi i piedi, chi imbrattandosi le mani per poi imprimerle su fogli bianchi e trarne varie tracce, mentre altri hanno incominciato a pitturare verticalmente la rete di recinzione del parco giochi del giardino.
In un’altra occasione abbiamo consegnato sei torce uguali a sei bambini. Il gioco consisteva nel proiettare sulla parete della stanza una figura sovrapposta alla luce delle torce. Dopo avere eseguito le indicazioni dell’educatore per ottenere la proiezione, ciascuno di loro ha incominciato a usare la torcia in modo differente: chi l’ha sottratta all’altro bambino per poi giocare con due torce, chi ha abbandonato il gioco, e così via. Ciascuno ha trovato altri modi di giocare con lo stesso oggetto, tanto per confermare che nel gioco non c’è parità e uguaglianza. Attraverso il gioco i bambini esercitano la loro intelligenza. Il gioco, quindi, non è naturalistico ma artificiale, come l’intelligenza. Per noi è essenziale rilanciare l’intelligenza come arte del fare.