LA GREAT RESIGNATION: ATTO ARBITRARIO O FUGA DAL LAVORO?
Le multinazionali compiono studi e ricerche costanti per intendere in che modo “attrarre e trattenere collaboratori e talenti”, e non sempre ci riescono, anche quando comunicano con orgoglio di essere classificate fra le “Fortune 100 Best Companies to Work”. Mentre non sono poche negli ultimi due anni le PMI italiane costrette a rinunciare a commesse importanti per carenza di personale qualificato. E quante iniziative prendono gli HR (i responsabili delle cosiddette “risorse umane”) per cercare di accontentare il collaboratore, che viene definito come “cliente interno”? Come precisava l’HR di un grande gruppo del packaging con oltre 20.000 addetti: “Quella che il marketing ha chiamato customer experience (il modo in cui i clienti percepiscono l’insieme della loro interazione con l’azienda) viene riportata all’interno, per analizzare l’employee experience. È un approccio che le grandi aziende stanno adottando per intendere ciò che un collaboratore ha provato durante la selezione, qual è stata la sua esperienza il primo giorno di lavoro o nel percorso di formazione interna che gli ha consentito di svolgere al meglio il suo lavoro”.
Partendo dal principio della volontà di bene, l’azienda dovrebbe inseguire quindi non soltanto il presunto desiderio del cliente, ma anche quello del collaboratore. Dico presunto perché nessuno sa quale sia il desiderio proprio o dell’Altro. Anzi, il desiderio è originario e non può essere attribuito a chicchessia. Prova ne è che i risultati non ripagano gli sforzi compiuti: stando agli articoli che riempiono le pagine dei giornali in questi mesi, intitolati al fenomeno americano della Great Resignation (Grande dimissione), tutte le premure delle aziende nei confronti dei collaboratori – manager strapagati in primis – non impediscono a costoro di tagliare la corda sul più bello, proprio al culmine dei riconoscimenti ottenuti. Possiamo considerarlo un atto arbitrario?
Intanto, si sprecano i commenti degli esperti che cercano le cause, prima ancora di capire se il problema esista veramente: “Bisogna comprendere i giovani, che stanno vivendo una crisi di senso della concezione del lavoro. Essi non hanno lo stesso approccio delle generazioni precedenti, disposte a compiere sacrifici enormi per essere all’altezza di un modello di sviluppo occidentale, orientato quasi esclusivamente alla performance e all’efficienza”. In breve, ancora una volta, le aziende “occidentali” dovrebbero “comprendere i giovani” e offrire un ambiente favorevole al work-life balance, all’equilibrio vita-lavoro, come se il lavoro non facesse parte della vita. Più che l’analisi di un problema, tali commenti sembrano dettati dalla fretta di dimostrare la propria capacità di offrire una soluzione, mentre i dati nel nostro paese, come nota Pietro Ichino nel suo libro L’intelligenza del lavoro (Rizzoli), parlano piuttosto di transizione occupazionale o di miss-match (mancata corrispondenza) tra domanda e offerta.
La Grande dimissione è una tendenza in cui i dipendenti si dimettono in massa dai posti di lavoro, iniziata nell’estate 2021 negli USA, dopo che il governo si è rifiutato di fornire protezione ai lavoratori in risposta alla pandemia, che ha causato stagnazione, mentre aumentava il costo della vita.
“Se si può vivere con meno ed essere felici, allora è possibile rallentare la macchina del capitalismo che troppo spesso crea ineguaglianze economiche e sociali”, scrive un blogger che si firma semplicemente come “ricercatore informatico (quasi) trentenne”, s’interessa di “tecnologia, investimenti e stili di vita alternativi” e dal 2018 segue il movimento FIRE (Financial Independence, Retire Early: indipendenza finanziaria e pensionamento anticipato), un movimento che promuove uno stile di vita all’insegna del risparmio e degli investimenti, in modo da potere diventare finanziariamente indipendenti e andare in pensione anticipata. Fonte d’ispirazione di questo movimento di decrescita felice è il libro del 1992 O la Borsa o la Vita: 9 Passi per Trasformare il Tuo Rapporto con il Denaro e Ottenere l’Indipendenza Finanziaria di Viki Robin e Joe Dominguez.
Lo stesso blogger rileva che “la pandemia è stata la causa scatenante del fenomeno delle grandi dimissioni, ma movimenti culturali preesistenti come il FIRE o il Lying Flat in Cina sono in[1]dice di un’insoddisfazione esistente già da tempo da parte dei giovani nei confronti del lavoro al giorno d’oggi”.
Ora, non si tratta di negare l’insoddisfazione dei giovani o di chi si dimette dal lavoro per i motivi più disparati, ma la risposta non sta nell’utopia della fine del lavoro. Chi crede di potere scegliere fra la vita e il lavoro è già nell’ideologia della dipendenza, che presta il fianco al concetto di schiavitù e si basa sul principio di uguaglianza, il principio stesso di morte (“Tutti gli uomini sono uguali in quanto mortali”, come diceva Aristotele). Per questo blogger, il nemico diventa il “capitalismo che troppo spesso crea ineguaglianze”. In realtà, nella vita nulla è uguale: vivendo, parlando, facendo, scrivendo, ciascuna cosa è differente e varia, esposta alla contraddizione, all’ambiguità e al malinteso strutturali. Ed è il tempo che dà ragione delle cose, non il padrone sullo schiavo o il superiore sull’inferiore. Per ciò, l’utopia della fine del lavoro è l’utopia della sconfitta del tempo.
Soddisfazione deriva dal latino satisfactionis, da satisfacĕre (fare abbastanza). E se l’insoddisfazione dei giovani, dei manager e dei collaboratori che lasciano il lavoro fosse frutto non dello stress, del capo “troppo esigente”, ma dell’assenza di scommessa e di rischio, quindi del “non fare abbastanza”? In questo senso è forse da intendere la questione che Armando Verdiglione enunciava negli anni settanta: a ciascuno la sua impresa, ovvero l’impresa senza salariati e senza assistiti, anticipando così ciò che negli anni novanta l’economista Emilio Fontela rilevava come questione del brainworking, in particolare nei suoi libri editi da Spirali Sfide per giovani economisti e Come divenire imprenditore nel XXI secolo. Ciascuno, indipendentemente dal compito che svolge in un’azienda – raccomandava Fontela –, deve divenire brainworker, ovvero non può ritenersi esente dalla scommessa e dal rischio di riuscita. Il brainworker è uno statuto che sfugge al canone mercenario: non più l’ideologia della dipendenza, per cui ognuno si fa soggetto e cerca il posto in cui riceverà, prima o poi, il miglior “trattamento” economico e sociale, ma la scommessa di contribuire alla riuscita del progetto e del programma dell’azienda e, così, di trovare soddisfazione. Mentre chi attende il “trattamento” parte dal principio del risparmio – che è il principio energetistico, quello del minimo sforzo per il massimo rendimento –, chi fa una scommessa è instancabile, la sua forza sta nella domanda inesauribile, incontenibile e incontabile, è la forza dei dispositivi della parola, in cui nulla è pesante, grave, mortifero. Il “capo” mi “tratta male”, non “riconosce i risultati che porto”? Ma io non sono una sostanza chimica, qualcosa che possa subire un trattamento, e il “capo” non è fuori dalla parola: ciò che dice non toglie nulla ai risultati, che sono anch’essi nella parola, non sono esenti da equivoco, ambiguità e malinteso. Se, per esempio, un venditore enuncia che egli è “la colonna portante” di un’impresa perché il suo fatturato è “il maggiore in assoluto”, non può impedire a chi dirige la riunione commerciale di fare una battuta sulla “portata” della colonna. L’atto di parola è arbitrario, libero, ovvero la parola non è la mia, la tua, la sua parola. Per questo il dispositivo della parola, procedendo dall’ironia, con l’umorismo, il motto di spirito e il riso dissipa ogni dipendenza.
Questo vale sia per i collaboratori sia per i successori di un’azienda: dare un apporto al progetto e al programma dell’impresa esige il dispositivo della parola, in cui l’investimento è insostanziale, non rispetta il “rapporto”, la dialettica padrone-schiavo, superiore-inferiore. E si tratta in ciascun caso d’incominciare proseguendo, non producendo il cambiamento o la “rottura”, né cercando il “miglior rapporto”, il best place to work. Tra l’altro, cambiare lavoro continuamente, in cerca dell’organizzazione ideale, va in contrasto con l’esigenza pragmatica di specializzarsi, di acquisire talento in una materia, soprattutto se consideriamo la complessità delle organizzazioni oggi e la difficoltà di mantenersi aggiornati in ambiti in cui l’obsolescenza è rapidissima.
L’impresa senza salariati e senza assistiti è l’impresa intellettuale, l’impresa in cui ciascuno è brainworker, ovvero non crede di dovere rinunciare all’indipendenza dando il suo apporto, scommettendo e rischiando in un’azienda di cui non è proprietario. Va precisato che il rischio non concerne soltanto l’investimento finanziario dell’imprenditore e dei suoi soci, ma è il rischio di riuscita, il rischio intellettuale, che entra in gioco in ciascuna attività dell’impresa, fosse anche la più semplice operazione meccanica. Con il brainworking, non ci sono attività esenti dalla parola, dal ragionamento, dall’incontro, dallo scambio, dal confronto. E nell’impresa intellettuale, nessuno sceglie o cambia azienda, città, nazione finché non trova il lavoro ideale, il “lavoro della propria vita”, cioè l’ultimo lavoro, ma ciascuno, lavorando, cercando e facendo, è tratto verso il compimento e l’approdo delle cose che si fanno secondo l’occorrenza.
L’impresa intellettuale non è l’impresa ideale, ma, per esempio, è quella in cui si producono riviste come “La città del secondo rinascimento”; oppure quella di case editrici come Spirali, che dal 1978 pubblica libri di dissidenti di vari paesi e settori, senza mai concedere nulla ai canoni dell’epoca. Realtà intellettuali in cui ciascuno, con entusiasmo, dà il proprio apporto alla produzione e alla vendita di libri e opere d’arte e all’organizzazione di congressi, convegni, dibattiti e mostre, trovando sponsor e amici che contribuiscono al finanziamento del progetto e del programma dell’impresa.
Un imprenditore con cui abbiamo instaurato un dispositivo di brainworking notava come “forse alcuni giovani che si permettono di licenziarsi così facilmente non hanno la necessità pragmatica di lavorare, poiché non assumono impegni familiari e sono mantenuti dai genitori anche dopo i trent’anni. Inoltre, hanno assorbito l’ideologia che attribuisce all’impresa la colpa di tutti i disastri ambientali, per non parlare dei danni alla salute: nell’impresa, soprattutto in quella manifatturiera, ci si sporca, ci si ammala a causa dei cattivi odori, dei rumori troppo forti e dell’aria che si respira. Infine, in seguito alle sempre più frequenti fusioni e acquisizioni da parte di grandi gruppi, i giovani sono costretti a lavorare per entità astratte, in cui non ci sono referenti, se non impiegati come loro, che possono lasciare il lavoro il giorno dopo. E anche questo va a scapito dell’impegno: il giovane spesso gioca al risparmio perché non sa per chi dovrebbe invece impegnarsi in modo assoluto”.
In effetti, lavoratore è il nome che funziona e varia nella parola. “Chi me lo fa fare?” non è una domanda che esige una risposta come “Tizio, Caio o Sempronio”, ma è qualcosa che enuncia la domanda, che è sempre di qualità, di cifra, di valore. Il nome lavora senza bisogno di ottenere il “giusto riconoscimento”. E, nell’impresa intellettuale, intervengono nomi che funzionano e variano in modo incessante e arbitrario, non soggetti eroi o autonomi che combattono la dipendenza e, pertanto, raggiungono il colmo della dipendenza. In quanto nomi, invece, non hanno nulla da cui liberarsi, nulla da ricondurre al punto di vista, alla presunta volontà del padrone o dello schiavo, all’arbitrio dell’idea, ma si attengono all’arbitrarietà dell’atto. Soltanto così, hanno la chance d’inventare il lavoro nella vita, ciascun giorno, vivendo: un atto arbitrario, senza più l’ideologia della dipendenza.